DUE PENSIERI SU POESIA E MEDITAZIONE
La macchina del tempo – Poesia non è soltanto mero esercizio di scrittura. Poesia è anzitutto scoperta, è l’atto di comprovare attraverso la leva del poetare, che è un modo di guardare, di apprestarsi a pensare. Perché no, di negarsi. Ed alfine di abbandonarsi alla vita effettiva, alla concretezza di tutti i giorni. La poesia è una macchina del tempo, non si ferma mai. L’unico modo per arrestarla è uccidere chi la pensa. Manlio Sgalambro asserisce che il compito della filosofia è «diminuire le tracce di volontà nel mondo», una frase continentale, che fatico a contenere, anzi, mi correggo: non so contenere affatto. Pare un ossimoro, una contraddizione in termini: nel mentre si tesse la propria filosofia si proclama astensione dal manifestare atti di volontà. Mi ricorda i versi di una poesia di Eihei Dōgen dal titolo Un monaco zen cercava un verso:
La mente, essa stessa, è Buddha – difficile da praticare, ma facile da spiegare.
Nessuna mente, nessun Buddha – difficile da spiegare, ma facile da praticare.
Nessuna mente si può anche tradurre come nessun pensiero. Vi sono atti della realtà che sono facili da intuire, ma quanto complessi, intricati, labirintici da ragionare o peggio, da illustrare con la voce: le parole si ossidano e cadono giù troppo in fretta. Mentre si eseguono, gli stessi atti, invece fluiscono, si manifestano, si compiono con naturalezza. Dōgen d’altro canto, fu colui che teorizzò che meditare significa “pensare il non pensiero” (nelle parole scelte in traduzione da Aldo Tollini): fare il vuoto non vuol dire sospendersi, spegnersi, rabbuiarsi, piuttosto significa non aver alcun bisogno di pensare e di pensarsi. Si lavora per disinnescare, per diminuire le tracce della volontà nel mondo, per andare oltre l’essere ed il non essere.
Meditazione della neve – Spesso la mattina mi alzo vinto da pensieri molto pesanti. Angoscia, senso di colpa, inadeguatezza, furia, autocommiserazione. Per anni ho creduto che fosse il sintomo di un destino non variabile, un modo insomma per dirsi: ok, non sei all’altezza, dacci un taglio. Ma un taglio a che cosa? Alla vita che ti sei scelto? Ai rapporti col prossimo? A addirittura a tutto quanto? Col tempo, con l’esperienza, col confronto, e grazie alla pratica continuativa della meditazione, mi sono reso conto che il dolore, la fatica, la fame, in tutte le varianti possibili, sono parte di quel che sono. Sono l’umano che sono. Essi abitano il corpo che sono, essi abitano la mente che sono. Certo, i libri che andavo leggendo lo ripetono continuamente eppure quanto è diverso “ragionare” una verità attraverso la macina dell’esperienza, raggiungerne la consapevolezza rispetto al solo “saperlo”. Molti aspetti maturano, non si possono semplicemente trasmettere. E dunque bisogna imparare a “farsi nevicare dentro”, per poi condividere le sensazioni di leggerezza, solarità, pienezza che si alternano, che si consolidano ed emergono dopo che la tempesta si è esaurita. Mi sovviene il discorso che faceva Jiddu Krishnamurti (in Meditazione, Astrolabio Ubaldini): egli sosteneva che anche la pace e la serenità sono condizioni provvisorie, sono finzione, situazioni di stasi destinate a non perdurare. Perché è oltre il bene e il male che esiste una condizione di pace, è oltre lo schermo addomesticato che ci imponiamo come obiettivo. Non si medita, non soltanto almeno, per raggiungere la placidità, la serenità, ma per andare ben oltre, laddove non c’è bisogno più di niente. Nemmeno della calma. Dell’astensione. Dell’imperturbabilità. Il risveglio, l’illuminazione, è questo andare oltre. Non ci sono mai stato, ma credo sia un motore, un’attrazione, un polo dinamico che operi nascostamente. D’altronde Eraclito da Efeso recitava, già ai suoi tempi: «La natura ama nascondersi.»
