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UNA TEORIA INTERPRETATIVA DEL CONTEMPORANEO
«Nella solitudine essi [i greci] sono giunti a dei sentimenti supremi nudi di immagini e razionalità, e talmente lontani dai sentimenti e dalle idee comuni dell’umanità che essi neppure saprebbero tradurli in parole, e quand’anche vi riuscissero, mai li renderebbero accessibili all’intelligenza umana», così ha scritto lo studioso Giorgio Colli [1917-1979], uno dei nostri più appassionati conoscitori, e divulgatori, del pensiero greco antico. A suo modo un pensatore antico e “sovrumano”, così chiamava i filosofi che hanno indagato per primi quel che ci sarebbe oltre l’umano, oltre il reale concreto, Platone e i presocratici. Ed è puntando l’occhio del pensiero a loro, quanto ai santi taoisti, ai patriarchi del buddismo, ai nostri santi cristiani, anacoreti o meno, che si è rinforzata in me l’idea di un Quinto Umanesimo.
Il primo umanesimo è fiorito in Italia nel Cinquecento, ci ha consegnato tanta bellezza, anzitutto in pittura. Il secondo umanesimo corrisponde all’epoca del romanticismo europeo, a Goethe, a Schiller. Per terzo umanesimo si intende il pensiero concepito da Werner Jaeger, classicista e autore, fra gli altri, dell’opera in tre volumi Paideia (Bompiani, 2003): l’educazione è essenziale per forgiare uomini colti e sicuri e forti tanto da saper abbracciare non l’interesse, ma l’idea, punto di dialogo fra antico e presente. Si recuperi l’attitudine sociale della dimensione politica come veniva sentita nella cultura greca classica, ogni individuo che coltiva la cultura non può dunque che essere un animale sociale. Un quarto umanesimo sarebbe da intendersi nel multiculturalismo, quale antidoto ai nuovi totalitarismi economici e tecnocrati, quanto al populismo e alla nebulosa dell’anarchia, teorie che vedono il fine nell’annullamento di uno stato e di una società coesa e organizzata; dunque un umanesimo scientifico, biologico, legato ad uno slancio rinnovato oltre i confini ma anche ai progressi della ricerca scientifica. Diversi filosofi ne hanno rivendicato, a turno, motivi e ispirazione.
A distinzione di questo mi pare invece evidente un altro umanesimo dei nostri giorni, un eventuale “quinto”, che muove dal “complesso dell’eremita”, un approccio alla realtà che unisce invero non pochi pensatori del secolo che ci ha partorito e degli autori dei nostri stessi giorni, ossia una visione singolare, remota, della realtà, accomunando Nietzsche e Cioran, Emo e Zhuang-zi e quanti altri. La società è quel che è, per natura e scelta risulta corrotta e scarsamente abitabile, la burocrazia vince sul pensiero e le necessità economiche sulla cura agli individui. Non resta dunque altro che inforestarsi, allontanandosi e vivendo in uno stato prossimo a quello degli antichi eremiti. Non è richiesto andare a vivere nella grotta, sulla colonna come gli stiliti o nella bocca di un albero come i dendriti; è sufficiente annullare o ridurre ai minimi termini la comunicazione, abitare la “grotta” che ciascuno ha nella propria minuta dimensione singolare e sempre più solitaria. Nondimeno il discorso regge qualora si colgano come unità di analisi una o più delle piccole tribù coese e armate che vivificano il sottobosco culturale, spinte spesso contro tutti gli altri, una “religione” diffusa in quel che resilia delle riviste e dei blog letterari. Diversi autori e poeti della mia generazione ne rivendicano il bisogno e l’autenticità.
Anche coloro che nella vita inseriscono distanza fra sé e la società, vivendo appartati, forse anche mossi da intenzioni eremitane, si interrogano sui grandi temi della vita e del proprio tempo. Avendo meno occasione di dialogare e di scendere a compromesso allevano il tempo che hanno a disposizione per approfondire e discernere, ovvero coltivano a loro modo l’umanità che li innerva tentando di raggiungere una sintesi fra nacessità e utopia. “Abitare distante” non significa per forza disinteressarsi del resto del mondo e dei propri simili. Ci si interroga comunque, non si smette di essere umani. Come rileva la filosofa americana Martha C. Nussbaum in Coltivare l’umanità (Carocci, 1999), l’uomo che pensa indaga la “vita esaminata” (se stessi e le tradizioni), ci si concepisce come parte di interesse più generali e collettivi, ed esercita “l’immaginazione narrativa”, ossia ci si cala nei panni di altri (minoranze religiose o socio-linguistiche, differenze di genere ed economiche). Paradossalmente l’isolamento sociale può diventare ispirazione per una nuova leva di intelletti, di opere, di artigianati artistici che potrebbero illuminare, irradiare, consigliare coloro che della politica diventeranno gli esponenti. O forse, meglio ancora, portare a società prive di gestione rappresentativa, a società prive di classe politica ma mossa da individui più consapevoli.
Utopia? Fracasso? Strade a senso unico e senza sbocco? Eppure anche il più piccolo sogno è impastato di idealismo.
Tiziano Fratus, Casa del leccio, 2 gennaio 2018
Ultimo emendamento: sabato 24 febbraio 2018