Articoli di cultura teatrale

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Dispacci dal teatro dei nostri giorni

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L’esperienza di Giuliano Scabia

Riscopriamo l’antica tradizione di ascoltare storie immersi nel bosco

Ad ascoltare storie si va nei teatri. O nelle piazze, se adeguatamente attrezzate. O ancora in una casa, o intorno ad un fuoco acceso. Oppure in un cinema, al chiuso o all’aperto. O in biblioteca. O in un centro culturale. Oppure ci si sdraia comodamente sul proprio divano e si mette su un audiolibro, o un cd con vecchie poesie lette magari dal grande Dylan Thomas, o ci si fa cullare dalla vociona grassa di Giuseppe Battiston che ci racconta le vicende di un’indagine del commissario Maigret. Ma esiste anche un altro tipo di intrattenimento: il racconto o teatro in selva. Pratica remota, molto popolare nelle civiltà preromane, ad esempio nella Grecia a noi antica, caduta quindi di certo in disgrazia durante le lunghe epoche di divisione certosina tra la civitas, ovvero tutto quel che esisteva entro le mura, intra moenia, e dunque civile, e quel che stava al di fuori, il periglioso, il veemente, l’improvviso, l’incivile, appunto extra moenia. Soltanto i santi, i mercanti e i temerari cavalieri se ne andavano in giro a quei tempi, se non costretti da avverse condizioni. Non a caso era uso fare testamento prima di partire.

Nella nostra comoda e rilassata, si fa per dire, modernità, i boschi sono tornati a riposare, a crescere e ad ospitare tanti visitatori, i più giornalieri, occasionali, la domenica soprattutto, o nei periodi di ferie. Proprio in questi nuovi boschi a noi contemporanei si è rinforzata la pratica o l’arte di raccontare storie tra gli alberi, vicino ai muschi, lungo i sentieri. Uno dei primi cantastorie che ho incontrato nei boschi fu il compianto Giuliano Scabia (1935-2021), factotum del teatro italiano diremmo posteduardiano, autore di teatri portati in scena alla Biennale di Venezia, creatore di cavalli azzurri che hanno furoreggiato nei manicomi quando erano ancora vincolati a pregiudizi e ahinoi, nascondevano i peccati dell’uomo, educatore sommo al celebre DaDams di Bologna, fucìna di futuri scrittori e artisti, irriverente animatore di città come accadde a Torino a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, coinvolgendo bande di operai, studenti e chi più ne ha più ne metta. Ma anche umile teatrante di paese, in viaggio col suo teatrino di bambole e personaggi, da un paese all’altro, nella comunità variopinta dell’Appennino Tosco-emiliano. Tra le mani e le visioni di Scabia è transitato un pezzo, lo si può ben dire, di cultura italiana, quando il teatro non era soltanto una scatola chiusa, un po’ come è ridiventato negli ultimi decenni, ma un esperimento sociale, un’occasione di incontro, una possibilità tra persone diversissime, per educazione scolastica, per esperienza, ma quelli erano tempi così, oggi siamo tornati alle discipline rigide, alle ambizioni stralunate, ai geni, mentre nessuno di quel tempo si sarebbe creduto tale. Eppure avevano forse più diritto di noialtri di credersi, ma così non era.

Vidi dal vivo la prima volta Scabia in un bosco, nel novarese, una iniziativa organizzata dalla compagnia teatrale di Franco Acquaviva, il nomadico Teatro delle Selve. Lì, in un boschetto al termine di un sentiero, c’era questo uomo dagli occhi azzurrissimi, i capelli oramai canuti, ma ancora folti, piccolo, che agitava le sue mani e leggeva racconti di animali, di lupi, di volpi, e di tanto altro. I bambini presenti invero ascoltavano, alcuni, altri meno. Io ero con un amico poeta, e tutti e due ci siamo messi ad ascoltare, ma a quell’epoca eravamo di fretta, la mia purtroppo è una generazione nata e cresciuta nella fretta, e non l’abbiamo lasciato finire; ci sembravano storielle troppo facili, troppo piccole, e senza spettacolo, soltanto l’uomo e la sua voce, quanto rimpiango quella stupidità di avere vent’anni e farsi ingannare da certe idee! Oggi farei carte false, o quasi, per riaverlo qui, in un bosco qualsiasi, e poterlo andare ad ascoltare.

Giuliano Scabia univa spesso ritualità antiche e poesia, non solo quando scriveva ma anche quando eseguiva i suoi concerti teatrali, spesso attraversando i luoghi e fra questi appunto i boschi. Non resta molto di quella stagione se non nei ricordi vividi di chi c’è stato, per tutti gli altri è solo un eco. Ma se andiamo in libreria qualcosa ritroviamo: ad esempio il commovente Lettere a un lupo (Casagrande, Bellinzona, 2001), Il poeta albero (Einaudi, Torino, 1995), L’insurrezione dei semi (Ubulibri, Milano, 2000), Opera della notte (Einaudi, Torino, 2003), Teatro con bosco e animali (Einaudi, Torino, 1987), il ciclo di romanzi di Nane Oca, il postumo Il ciclista prodigioso (Einaudi, Torino, 2022). Tutti i temi che oggi tanti autori e poeti attraversano pensandosi i primi a farlo sono stati puntualmente anticipati dal buon Scabia, che di queste cose ne sapeva, la sua sensibilità era orientata proprio ad ascoltare/oscultare ogni forma di esistenza, fino all’immaginabile comporre lettere per i lupi che di tanto in tanto intravedeva, forse più con gli occhi della fantasia che dal vero.

«Caro lupo, dunque ci sei, di nuovo, nei boschi: forse anche nel bosco che è qui davanti a me – il tuo bosco: percorso in questi anni dagli occhi ricercanti e assassini di un uomo – come me – che tutti chiamano mostro, tagliatore di carni umane. O lupo, caro lupo – forse insieme, studiando le nostre menti, riusciremo a capire chi sei, e chi siamo», così scriveva in Lettera a un lupo.

Oppure: «Ah, ciripirìp, che bel rondoncino / allievo di rondondonità / è sulle curve la difficoltà / facile invece planare. / Che bèl! Nel so dialèto / sento ch’l dixe (el rondoneto) / (pimpirineto bufèto narèto) / che èa paura va via / quando el vento supiando…» da Il poeta albero.

Ovviamente vince il gioco, come anche in tanta poesia e filastrocca di Torino Guerra, ed è anche semplice, se vogliamo senza grandi pensieri dietro, sebbene le idee non manchino. Una lingua che s’inventa, storie che ci raggiungono con quel qualcosa che sì, pare davvero perduto, di quel mondo aperto, dove le classi sociali erano anche meno rigide, non per scelta, semmai per visione di generazioni che al contrario il mondo cercavano di aprirlo, senza vivere nella paura dell’altro. Dove è finita quella fantasia libera? Quella cultura che si illudeva di essere per tutti o per tanti, ma comunque viaggiava, arrivava, univa?

[Questo articolo è uscito sulle pagine del quotidiano La Verità sabato 5 ottobre 2024.]

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Antonio Tarantino: al fondo la vita è un paradosso divertente

Un ricordo personale del drammaturgo torinese

Antonio Tarantino era considerato uno dei nostri più audaci e originali autori teatrali. Stimatissimo fin dagli esordi dal critico Franco Quadri che l’aveva tolto dall’anonimato e aveva sostenuto il suo impegno pubblicandone i testi con quella splendida creatura editoriale che è stata Ubulibri, uno degli editori di teatro più ricchi e di valore che il nostro recente passato abbia avuto, facendolo concorrere, con un certo entusiasmo, ai Premi Riccione e Ubu, che vinse, e favorendone la conoscenza ai grandi registi italiani (Cherif, anzitutto, ne portò in scena i Quattro atti profani o Tetralogia delle cure e il monumentale Materiali per una tragedia tedesca). I testi successivi hanno soltanto ribadito la sua originalità, un misto di irriverenza nei confronti dei valori e delle figure della società euna lingua grandinosa, ricchissima, incontenibile, al contempo sgrammaticata e quotidiana e non scevra di una certa visionarietà.

Gente alla fine piccola, i protagonisti dei suoi atti e delle sue tragedie, dediti all’arte della ripicca – Tarantino parlava di “contrappunti di linguaggi”, al menefreghismo universale, spinti verso una acrimonia corrosiva. Eppure non potevi fare a meno di provarne compassione, come nei riguardi della Maria, la protagonista del più volte messo in scena Stabat Mater, o come quei due sciroccati di Arafat e Sharon che vagano nel deserto insultandosi costantemente, ne La pace. E come non innamorarsi di piéces quali La Casa di RamallahPassione secondo GiovanniStranieriLustrini? In Europa era molto stimato e amato, in Francia, ad esempio, o in Portogallo e in Svizzera, dove i suoi testi sono stati rappresentati col dovuto riguardo. Aveva un gusto per il classico mediato prevalentemente dal proprio sguardo divertito, per nulla in soggezione, e non avendo coltivato studi universitari vagava distante da quella sufficienza riverente che spesso i nuovi autori manifestano, quando si rapportano ai testi e agli autori mitizzati del passato. Nutriva una certa simpatia per Pasolini e Gramsci, che leggeva, e di cui ogni tanto parlava, come se fossero amici d’infanzia.

Alcuni articoli che sono usciti dopo la triste notizia della sua morte per infarto, lo scorso 21 aprile (2020), hanno sottolineato quanto fosse una persona dal carattere ombroso e un isolato. Ma si sbagliano. Antonio Tarantino ha vissuto come ha meglio potuto, suo malgrado l’unico suo difetto non era caratteriale, ma economico: per buona parte della sua vita ha avuto spalle fragili, si è incantucciato nelle sue case popolari, poiché questa è la vita che ti attende quando sei un artista e non ti adatti, non indossi le vesti dell’autore di successo. Tarantino non ha mai lavorato per un teatro, non è mai stato salariato da un quotidiano o da un giornale, e anche i diritti che riceveva – tranne eccezioni – dalle messe in scena erano al limite del risibile. E quando riceveva dei denari se li portava appresso, in una mazzetta di banconote da film che ogni tanto tirava fuori dalle tasca della solita giacca scura e puntualmente lisa. Prima di diventare drammaturgo era stato pittore, un figurativo molto bravo, ma non essendo uno scalatore sociale non era entrato a far parte di quel circo che arricchisce i propri componenti. Eppure era un bravo pittore.

Noi due ci siamo frequentati con assiduità per alcuni anni, poi, come capita nella vita, le strade si sono separate. Spesso, in quegli anni, lo incontravo nei bar del quartiere dove viveva, a Torino, prima che diventasse l’attuale kasbah di figli di papà, quando ancora era solo il quartiere del vecchio centro addossato alla stazione dei treni. Treni che amava guardare partire e arrivare, così mi raccontava. Tarantino amava bere, vino, soprattutto, negli orari più diversi, e gioiva quanto ti poteva ospitare per un piatto in comune, una pasta, un minestrone, in uno dei suoi ristorantini di quartiere. Non propriamente piatti indimenticabili. Ho sentito questo, mi ha scritto quella, ho incontrato quella coppia che dirige il festival xx, i nostri incontri erano resoconti contabili di avvenuti avvistamenti. Conditi ovviamente di immancabili dettagli umoristici.

Anni fa, Antonio fece un viaggio a Roma con un suo amico poeta, poi purtroppo morto e dimenticato, una persona gentilissima anche se ogni tanto bisticciavano come una coppia sposata da una vita. Volevano protestare all’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese contro quella barbara tradizione di uccidere i cani e mangiarli; così si fecero scrivere a pennarello uno o due cartelli – non ricordo esattamente – in ideogrammi, credo da una loro conoscente che aveva un ristorante, e rimasero due giorni in piedi, con in mano questo cartello, davanti all’ambasciata. Totalmente ignorati. Finché decisero che era tempo di tornare a casa. Circolava anche un video che testimoniava questa curiosa lotta donchisciottesca ai mulini a vento.

Ricordo anche il discorso buffissimo che fece ad un festival di teatro che si svolse a Armada, vecchia città operaia di fronte alla capitale lusitana: amava raccontare di prendere il solito treno per andare a Roma e poi vagare, come un odierno Obelix, da un ufficio all’altro nei Ministeri, per incontrare persone importanti, notabili, segretari e sottosegretari. Un racconto surreale come surreale è stata un po’ tutta la sua vita. E il teatro, il dramma paradossale, era forse il suo unico destino. Oggi ci restano i suoi splendidi testi, quanto vorrei che venissero letti a scuola, antologizzati in quelle impossibili Storie della Letteratura Italiana che oramai si adattano anzitutto ai Premi Strega e a qualche figura che passa più tempo davanti ad una telecamera che col naso puntato su un figlio o una pagina di word.

Ciao Antonio, ci mancherai.

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