Le foreste di Dino Campana

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La Stampa 3.8.18
°Tra faggi e castagni monumentali risuona la poesia di Dino Campana°
di Tiziano Fratus

Da diverso tempo rifletto sul significato della restituzione. Cosa noi siamo in grado di restituire di tutto quel che ci viene donato istante dopo istante, incontro dopo incontro? Veniamo educati a prendere, ad accumulare. Quel modesto percorso di riconciliazione con la natura che conduco nella mia solitudine, e talora tento di condividere con articoli, poesie, libri – i silvari – e meditazioni accompagnate nei boschi, nei giardini storici, negli orti botanici, è un tentativo di adottare uno stile di vita sobrio, quasi monastico. In questi mesi ho innestato un nuovo rito, invero antico quanto le tavole delle Leggi: visitare un grande albero portando qualcosa – un seme, una foglia – e restare ad ascoltarlo, donando e restituendo, per quanto singolarmente possibile.

°I castagneti di Marradi°
Tornando in Toscana per l’ennesimo anno mi sono chiesto cosa avrei potuto fare e mi sono deciso: riportare la voce della poesia di Dino Campana nelle sue terre, le terre che l’hanno partorito, nutrito, dannato e accompagnato sull’orlo della pazzia. Ero già stato in visita ai castagneti di Marradi. Avevo avuto modo di sbirciare i luoghi rimasti legati alla storia umana del poeta. Oltre alle poesie, resta un diario di viaggio, una passeggiata meditativa che fece fino al santuario della Verna, uno dei luoghi francescani per antonomasia, laddove è conservato un saio del santo, forse l’ultimo indossato. Era l’inizio dell’autunno del 1910, un viaggio che prima o poi cercherò di ripercorrere, attraverso il Mugello.
Nel frattempo ho risalito i tornanti che conducono al passo del Muraglione, dove gli anziani giocano a carte tutto il pomeriggio, a tratti storditi dal canto risorgivo delle cicale. A Marradi riascolto il mormorio del Lamone che fende l’abitato come una spina dorsale; ecco la triste casa natale, ecco l’edificio che ospitò la tipografia Ravagli che nel 1914 pubblicò i Canti orfici. Risalgo a frazione Crespino, dove mi incammino nelle due ali di castagneto sopraelevato su cui incontro tanti diversi tronchi scolpiti e ritorti. Qui mi inginocchio, fra un merlo in amore e una folata di vento che scuote le chiome, apro la mia copia delle poesie e ne leggo alcune, ad alta voce.

°L’arboreto sperimentale°
Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi custodisce alcune delle nostre grandi selve sopravvissute, una natura rimescolata, dove la mano dell’uomo, tuttavia, ha disegnato, selezionato, rimescolato, coltivato. In Italia la natura primigenia è stata rimossa, forse permane in pochi luoghi remoti, minuscoli anfratti alpini, il cuore ombroso della Sardegna, forse in quel piccolo incanto vietato al cammino che è Sasso Fratino, riserva integrale dove per integrale si intende a protezione perpetua (il turismo è bandito).
Spesso mi ritrovo a pensare che parte della nostra natura conservata andrebbe resa inaccessibile, per consentire alla natura di ricominciare ad operare secondo natura. Nel Casentino riposano faggete ordinate, come accade attorno al Santuario della Verna, pochi anni fa colpito da una tromba d’aria che purtroppo ha compromesso l’unità sacra del bosco. Silenziosi i boschi che circondano il monastero di Camaldoli, un sentiero vi conduce ad uno dei grandi vegliardi arborei, il monumentale Castagno Miraglia, un tempo i frati vi pregavano, seduti al suo interno.
A Badia Prataglia, nel comune di Poppi, si trova il primo arboreto sperimentale dell’epoca moderna, fondato nel 1846 dall’ingegnere forestale boemo Karl Siemon; vi si incontrano curiosità botaniche, fra le quali una delle primissime, se non la prima, sequoia costale (Sequoia sempervirens) messa a dimora nel nostro Paese, probabilmente coetanea delle conifere del Parco Burcina, nel biellese, e delle sequoie che risalgono il monte su cui si trova il castello di Sammezzano, a Reggello.
Raggiungo un altro luogo visitato da Campana nel 1910, Castagno D’andrea, ultima stazione di una strada che porta da Pontassieve. I sentieri conducono al selvaggio Monte Falterona, vaste faggeta uniformi: pietre cariche di muschi, tronchi «a pelle d’elefante», piccoli sorseggi dal Dio delle cascate e dei ruscelli.

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