I più annosi alberi del pianeta

L’eternità sulle Montagne Bianche della California: ovvero dove le cortecce giocano a scacchi con la Dama Nera

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  1. Lo Zen e l’arte di visitare la California dei Big Trees

Nel luglio 2013 sono tornato in California con l’incarico di redigere un reportage a puntate per «La Stampa», un regalo alle mie visioni da parte di Mario Calabresi. Ho lavorato tre mesi per organizzare il viaggio nei minimi dettagli. C’e chi parte senza battere ciglio, infilando tre vestiti e un paio di chiavi inglesi in una sacca, e c’e chi ha bisogno di pianificare: in sostanza, parte se sa di potersela cavare. Non mi sento custode d’una filosofia avventurosa, appartengo alla seconda modalità. Avrei voluto fare il viaggio in motocicletta, uno di quei ferrivecchi scassati che devi aggiustare ogni tre per due, che macinano litri d’olio quanti chilometri, che i proprietari ti regalano perché stanchi di vederli a ingrassare polvere in una stalla, sotto una coperta di lana bucata. Attraversare le distanze del Nord America come hanno fatto tanti viaggiatori e scrittori, da Kerouac (di cui incontrerò lo spirito) a Pirsig, l’autore dell’intramontabile Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, dato alle stampe nel 1974, nei mesi del mio concepimento. Mancavano due elementi fondamentali per poter realizzare il piano: la patente per motociclette e le strade adatte in montagna. Alla prima avrei potuto provvedere in tempo, per le seconde l’iniziativa non sarebbe bastata. Quando si parla di California lo zen oramai imprescindibile. Qui vive uno dei suoi “maestri occidentali”, il poeta del selvatico Gary Snyder, qui hanno vissuto e respirato e si sono caricati come batterie biologiche poeti e narratori della Beat Generation. Al pari di tanti motociclisti, Pirsig sostiene la superiorità estetica e percettiva del viaggiare su due ruote, a discapito dell’automobilista, che vede come «un osservatore passivo», a cui «il paesaggio scorre accanto noiosissimo dentro una cornice». E vero che in motocicletta senti il rombo del motore che vibra lungo la spina dorsale e sfocia nelle dita che stringono le manopole e accelerano, che sei a contatto con l’aria, immerso completamente nel paesaggio. Come negarlo. Ma d’altro canto sono lo sguardo e la cura, l’attenzione che si presta, che elevano e inseriscono nel paesaggio. O allontanano. Ci si può annoiare anche in Harley, se l’attenzione e rapita da altro. Di certo, quando attraversi il mondo per visitare alberi vetusti l’auto e un mezzo; una volta arrivato all’ingresso del sentiero d’un parco, d’un bosco, ci si infila gli scarponi ai piedi e si parte. L’unica cornice sono il cielo e la terra.

Citando classici della cultura a stelle e strisce mi viene in mente un altro caso analogo, la pesca alla mosca descritta magnificamente da Norman Maclean nel celeberrimo In mezzo scorre il fiume (1976), portato al cinema da Robert Redford. Maclean mette in bocca ai suoi personaggi teorie stravaganti e l’idea che la pesca a mosca sia la vera pesca, quella che praticano Gesù Cristo e i suoi apostoli in Galilea, mentre l’altra e faccenda da gente che esce di casa coi barattoli di caffè pieni di vermi. Non e un caso che Maclean e Pirsig siano stati due scrittori anomali: il primo vissuto nel Montana ed esordiente nel mondo letterario a settantaquattro anni, il secondo di Minneapolis, esordiente a quarantasei. Due provinciali d’esperienza, due che si erano prima dedicati alla vita e poi si sono rivolti all’arte.

Finalmente posso andare a visitare le sequoie millenarie di cui da anni leggo in libri raccattati in varie parti del web, in librerie polverose e in qualunque altro luogo deputato e opportuno. Volumi fuori commercio, ora qui accanto al computer, in fila indiana. Cartoline sbiancate o ingiallite e dépliant. Ho cucito un viaggio lungo un mese che mi porta da Los Angeles a Big Sur, su fino al confine con l’Oregon, per ammirare le sequoie costali nei parchi che le custodiscono e svoltare nel cuore dello Stato, fino ai quattro luoghi sacri di chi ama tali meraviglie: Calaveras, Yosemite / Mariposa, Canyon / General Grant Tree e Giant Forest. Alla fine del viaggio mi ricavo alcuni giorni per toccare il celebre deserto del Mojave e puntare al confine con la Death Valley e le distese aride del Nevada, sui monti dove riposano gli esseri viventi più annosi del pianeta. Dopo tre settimane di spostamenti, parchi, tende, motel squallidi, camminate e preghiere laiche, metto piede nelle foreste scolpite che popolano le White Mountains, le Montagne Bianche. Due reportage dedicati sono usciti sul quotidiano «La Stampa» e sul «Bollettino della Società Italiana dei Viaggiatori» nel 2014. Le sequoie innerveranno il mio grande canto Giona delle sequoie, di futura pubblicazione, mentre i pini radicano opportunamente in queste terre cartacee.

  1. Migrazioni interne

La costa della California e dominata dagli eucalipti importati a meta Ottocento dagli australiani a caccia d’oro. Gli stracci pendenti delle cortecce che si arrotolano e depositano ai piedi dei grandi tronchi maculati mi fanno pensare ad un verso del poeta Wallace Stevens che scriveva «il secco eucalipto cerca Dio nella nuvola piovigginosa», forse a intendere che l’albero reclama grandi quantità d’acqua; infatti la specie viene messa a dimora nelle zone acquitrinose e paludose. Le foreste del Nord e delle montagne della California sono dominate dalle due specie di sequoia, da querce e pinete. Oltre, a sud e a oriente, si presenta il deserto: temperature inaccettabili, tanto da procedere con l’aria condizionata al massimo, poiché abbassare i finestrini vuol dire gonfiare l’auto d’aria bollente. Mojave non e una città: poche case, centri commerciali, pompe di benzina, un benvenuto scritto su cartelli ad altezza cane, un passaggio a livello incustodito, lunghissimi treni merci che passano per decine di minuti a velocità ridotta. Quattro pini testimoniano il parco cittadino, che e una distesa di polvere e cemento imbiancato; la scuola (Joshua Middle School) e un capannone a un piano allungato come la lingua d’un cavallo stremato. La vera città cresce dopo, nel deserto: ettari ed ettari di pale eoliche dove non crescono quartieri, non nascono nuove attività, i bambini non vanno a scuola o le mamme non li accompagnano in bicicletta. Qui lo Stato della California produce su larga scala energia pulita, svincolandosi dal carbon fossile. Eolic Town. Certo lo spettacolo lascia interdetti, il problema e serio e non può risolversi soltanto in disquisizioni di carattere estetico. Quando si parla d’incentivare la produzione d’energia verde si parla di questo, in concreto: oltre ai finanziamenti, non bastano i piccoli pannelli fotovoltaici sui tetti di casa o un’efficiente raccolta differenziata, per quanto auspicabile. Ci vuole spazio per produrre energia cosiddetta pulita.

Il paesaggio prossimo all’autostrada e piatto, spuntano i Joshua Trees (Yucca brevifolia), gli U2 li hanno raffigurati in un album che molti della mia generazione hanno ascoltato su vinile, in cassetta e infine su cd. Si ripercorre la storia degli immigranti mormoni, transitati di qui a meta Ottocento: guardandoli dal basso, gli alberi sembrano uomini con le braccia rivolte al cielo, in preghiera, proprio come Giosuè nella Bibbia. Rappresentano l’unico riparo dal sole e se tagliati forniscono una forma grezza di carburante. Alcune piante raggiungono i quindici metri di altezza. In primavera producono fioriture bianche e spettacolose. Pare che alcuni esemplari abbiano varcato la soglia dei trecento anni. La statale 14 porta a Indian Wells, Aerospace Highway, quarantaquattro miglia prima di sfociare sulla 395. Scogliere dentate a Red Cliffs, rocce metallifere. Alcuni tratti delle strade sono affidati alla cura dei cittadini, che si impegnano ad assicurarne il funzionamento. E un modello che andrebbe studiato in Italia, visto che se non ci pensa lo Stato il paesaggio sembra destinato a cadere in pezzi. Uno di questi referenti si chiama Popolizio: sarà un parente dell’attore ronconiano?

Quaranta dollari di benzina ad un’autopompa alle porte della contea di Inyo. Per meno di due dollari ti danno un bicchierone da mezzo litro di coca-cola alla ciliegia, gustosa e rinfrescante. Ma Roswell e lontano? Niente Ufo qui nel deserto? Un cartello reclamizza un posto che si chiama “Coso”. Rocce appuntite e nerastre, sembrano meteoriti. Deviazione per la Death Valley, luogo mitico quanto inospitale. A Cartago un igloo giallo e affiancato da uno scheletro di dinosauro arrugginito, e un motel. La solita improbabile accozzaglia di oggetti che popola la provincia. Improvvisamente pioppi cipressini: il deserto si colora di verde, enormi pozze circolari d’acqua, invasi circondati da pioppi; gli inglesi li chiamano Lumbardy Poplar. Jean Giono li descrive nella sua autobiografia, Il ragazzo celeste (Jean le bleu in originale, 1932), diceva che c’erano dove erano arrivati gli immigrati italiani. Questi invasi appartengono all’Owens Lake. Lontano, sulla sinistra, si staglia la figura del Monte Whitney (4421 metri), la più alta cima degli Stati Uniti, escluse le vette dell’Alaska. E spettacolare. Ricorda il Monviso (3841 metri) ma e meno largo. Riserva di indiani. Ancora quaranta miglia a Big Pine. Una donna sotto un cappello di paglia guida un bulldozer che rifà il manto stradale. Casino. Il governo federale ha concesso agli indiani di creare economia affidando loro la gestione di casino nelle rispettive riserve, ma sono luoghi tristissimi, decadenti. Un cartello giallo avvisa del pericolo d’improvvise nubi di polvere.

Big Pine. Al centro dell’abitato si svolta a sinistra in Crocker Street, abitazioni, una chiesa vegliata da uno splendido platano, si sale, il navigatore indica ancora dieci miglia. Il paesaggio si desertifica, si arriva a sbirciare un ghiacciaio, crode, una morena che ricorda il Biellese, si raggiungono i 7600 piedi, 2280 metri. Il campeggio e l’ultimo d’un’infilata di attività in gestione nel parco della Foresta di Inyo, o Inyo National Forest. Il ghiacciaio si chiama Palisade Glacier, alla francese. L’oste e una giapponese sbrigativa. Raggiungo il posto che mi e stato assegnato, tre scoiattoli neri sgranocchiano pigne sui muretti a secco e non muovono un pelo al mio arrivo. Il campeggio e in una radura di pini alla base della cresta della montagna. Nonostante l’altitudine la temperatura e gradevole. Anche in maglietta si resiste. Monto la tenda. La panchina e il tavolo sono in uno spazio rettangolare con camino per cucinare, eventualmente, la carne alla brace. Mentre scrivo alcuni appunti sul terzo taccuino dall’alto iniziano a precipitare frammenti rosicchiati di pigna, proprio sulla mia testa. Alzo gli occhi e vedo uno scoiattolo che dal suo ramo si sta allegramente sciroppando la cena. «Thank You Sir». Raggiungere il campeggio chiede tempo e mezzi, ma merita; certo le indicazioni stradali sul sito governativo dove ho prenotato i campeggi la fanno sempre più semplice. Prima che arrivi il buio intendo ridiscendere a misurare il platano e rifornirmi di cibo. Il viaggio s’e ingoiato l’intera giornata.

La chiesa bianca e stata costruita nell’anno 1896 dai metodisti. Il platano e splendido, potrebbe essere coetaneo dell’edificio. Radici ben espresse e un ruscello che gorgheggia accanto, chioma ampia, e alto diciassette o diciotto metri, più del campanile della chiesa. Il tronco sotto i due metri si divarica in tre branche primarie. E uno dei più bei platani californiani (Platanus racemosa) che abbia visto durante il viaggio. Ai ramoscelli e appeso un achenoso alla volta. Misuro la circonferenza del tronco: 450 cm. Tornando sulla 395 si svolta a sinistra, si esce dall’abitato e s’incontra la sede della Inyo National Forest, dedicata all’Ancient Bristlecone Pine Forest: una casupola con foto e mappe, informazioni e l’immancabile e sventolante bandiera a stelle e strisce. C’e anche una sequoia piantata il 23 luglio 1913, all’inaugurazione della strada che porta sulle Montagne Bianche, a oltre tremila metri d’altitudine. La sequoia e chiamata Roosevelt Tree, presidente ai tempi era Teddy (Theodore) Roosevelt. Pare ci siano tredici miglia allo Schulman Grove, quarantacinque minuti di viaggio. Il grove e visitabile dalle sei del mattino al tramonto, il centro visite dalle dieci del mattino alle cinque post-meridiane.

In una panineria acquisto tre pezzi di pizza, patate e insalata. Li mangio con calma, seduto al tavolo. E inquietante il galleggiamento delle persone che vivono in questi territori, oscillando fra dipendenza televisiva e il nulla che ingolfa la provincia. Da un certo punto di vista amo la totale liberta di spirito, ma non credo che ci resisterei a lungo. Mi rendo conto che qualcosa di distorto c’e e le persone lo coltivano dentro, di nascosto. E tutto un presente continuo, legato a ciò che i media raccontano momento per momento, e una storia evenemenziale sprovvista di memoria. Il cibo lo testimonia. Il cittadino non esiste, al suo posto c’e il consumatore rapido, fast. Ma forse sono soltanto elucubrazioni d’un europeo snob in viaggio in California.

  1. Storia della scoperta e dell’ammirazione dei pinosàuri per eccellenza

Mi fermo in un negozio, ritiro denari da una macchina ATM che accetta, bontà sua, la mia carta di credito. Compro un libro, A Day in the Ancient Bristlecone Pine Forest, scritto dal naturalista Mark Schlenz e fotografato da Dennis Flaherty. Costa 19,95 dollari ed e pubblicato a Bishop dalla Companion Press. Formato quadrangolare. Sara il digestivo della sera, non appena ritorno in tenda. Una luna crescente irradia chiarore sulle coste delle montagne, che acquistano concretezza. Arrivato al campeggio si sente il ruggito del torrente, il Big Pine Creek. Ci sarà rischio di orsi qui? Mamma Orsa mi sta cercando da tre settimane ma senza successo. Non sono ancora diventato il suo pasto della sera. E poi: da dove dovrebbero mai arrivare gli orsi? Intorno e deserto, soltanto sassi, sassi e ancora sassi. Mi chiudo in tenda con alcuni libri. Uno l’avevo acquistato a Big Sur, The Bristlecone Book (2007), e scritto dal professor Ronald Lanner, storico e docente di biologia forestale in diverse università americane, nonché autore dell’illustratissimo Conifers of California (1999). E per specialisti, ma da buon americano mantiene una facilita di lettura, tipica dell’impronta divulgativa che caratterizza la pubblicistica scientifica del continente. Della famiglia di quelli che sono chiamati Bristlecone Pines fanno parte tre specie: il Pinus longaeva – i botanici italiani lo chiamano pino dai coni setolosi – che sto cercando, segnalato negli Stati di California, Nevada e Utah; il Pinus aristata o pino delle Montagne Rocciose, rintracciato in Colorado e Arizona; il Pinus balfouriana o Foxtail Pine, il pino a coda di volpe (nome brillante) che cresce in due territori, al Sequoia National Park, dove e stato scoperto nel 1952 da John Jeffrey (lo stesso a cui si deve il nome dei Jeffrey Pines) e da John Balfour, professore, nonché nello Stato dell’Oregon. Hanno la corteccia mandarino. Il più alto esemplare e stato misurato nel 2006 in Oregon dallo studioso Frank Callahan, ampliando il bacino dei Bristlecone oltre i confini californiani.

Il libro quadrato e dedicato ai longaeva che incontrerò l’indomani. Alcuni scatti ritraggono le cortecce di pini, le deformazioni, le contorsioni; a pagina 32 c’e una foto del Patriarch: e il più grande esemplare esistente, trentanove piedi di diametro alla base, undici metri. Forse con questa foto sarò in grado d’individuarlo se, come temo, mancheranno i cartelli e le indicazioni sugli esemplari più annosi e rilevanti. Alle pagine 46 e 47 c’e la foto che ho già visto di un esemplare in rotazione, ammantato di neve e sotto un cielo plumbeo, acceso di blu scuro e grigio argentato. C’e anche una foto in bianco e nero di Edmund Schulman, la testa ficcata nel suo mondo dei sogni, nel Grande Sogno vivente: le mani e gli occhi rapiti a contare anelli di accrescimento incardinato in un pino capitozzato. L’uomo e tutto li dentro, in quel che sta facendo. Dietro scorre la catena dei monti con le cime innevate. E una foto scattata nei primi mesi dell’anno, a meta degli anni Cinquanta.

Principi di storia locale. Due sono le date fondamentali: 1948 e 1958. Nel ’48 in Europa le nazioni lentamente si risollevano dall’orrore della guerra, in Italia si svolgono le elezioni politiche che consegneranno il paese a quarant’anni di Democrazia cristiana; i due giganti d’Asia scuotono le spalle e si rendono indipendenti, sono l’India di Gandhi e la Cina comunista di Mao. Nel mentre Alvin E. Noren, forestale all’Inyo National Forest, scopre un albero che si rivela assai importante, un pino di grandi dimensioni. La notizia giunge alle orecchie di Schulman, docente all’Università dell’Arizona, dove e attivo un dipartimento specializzato nello studio degli anelli degli alberi; nel 1953 decide di organizzare una campagna di rilevamento, rinnovata nel ’56 e nel ’57. Gli esiti superano le migliori aspettative: vengono portati in laboratorio alcuni campioni e si scopre che i pini ingialliti e contorti presentano più generazioni sulla medesima pianta, convivono alberi morti e alberi vivi, ma soprattutto si scopre che superano i quattromila anni! Nel 1958, l’anno della morte del professore, il «National Geographic Magazine» pubblica un servizio sulla scoperta di Methuselah, l’esemplare che contiene 4676 cerchi (= anni), assicurando i Bristlecone Pines alla notorietà quali alberi più annosi del pianeta. L’albero viene successivamente analizzato e la datazione odierna tocca i 4500 anni. Lo studioso Tom Harlan certifica nel 2007 l’età di un altro pino già studiato a suo tempo da Schulman, arrivando a contare 4806 anni: l’albero iniziava a vivere duemilaottocento anni prima della nascita di Gesù Cristo.

Nell’agosto del 1964, come racconta Eric Rutkow all’inizio del suo bellissimo libro American Canopy, uno studioso trentenne, Donald Currey, sale accompagnato da diversi forestali lungo i pendii del Wheeler Peak, nello Stato del Nevada; a poco più di tredicimila piedi incontrano un grande esemplare di pino e lo misurano: la chioma spenta alta diciassette piedi, un ramo vivo di undici, base larga 252 pollici. Viene classificato come WPN-114. Decide di abbatterlo e di portarlo in laboratorio per studiarlo. Sciaguratamente i forestali che lo accompagnano acconsentono e il danno e fatto: si scopre che si tratta dell’albero vivente più annoso del pianeta: 4844 anelli. Poiché il taglio e stato effettuato diverse spanne al di sopra del punto di massima larghezza si ipotizza un’età prossima ai cinquemila anni. L’albero viene denominato Prometeo (Prometheus), come il titano che ha sottratto il fuoco a Zeus e l’ha consegnato agli uomini. Successivi studi hanno portato la conta a 4862 anelli. In taluni documenti viene segnalato come The Currey Tree. Currey e diventato professore emerito di geografia e la sua anima s’e spenta nel 2004. Nutro il sospetto che si sia traghettato dietro per tutta la vita il senso di colpa. Matusalemme, qui sulle White Mountains, e stato datato 4845, mentre tre anni fa Harlan ne ha certificato uno di 5062 anni, superando quindi il record di Prometeo.

A parte le foreste scolpite dei Bristlecone Pines, un altro mondo affascinante e quello dei ginepri. Sopra Yosemite c’e un santuario naturale fra i più spettacolari che abbia mai visto: e l’Olmstead Point, dove crescono in un paesaggio levigato dall’azione dell’ultima glaciazione arrotolati ginepri occidentali o della California (Juniperus occidentalis) che mostrano una corteccia sfilacciante color cuoio, caucciù. Sono distribuiti come se un’immensa mano ne avesse sparso le radici come si fa con i semi di grano in un pezzo di campo. Alcuni esemplari che ho accarezzato superano i cinque metri di circonferenza dei tronchi, e chissà quanti secoli maturati nelle cortecce. Altre popolazioni diffuse si trovano nello Stato del Nevada, sull’Overland Pass, al termine delle Montagne di Ruby, e nel Nuovo Messico, nella desertica Ojito Wilderness ad Albuquerque. La specie osteosperma o ginepro di Utah cresce in diversi Stati, compresi Nevada, Colorado, Wyoming, Arizona; e una delle rare presenze arboree dello spettacolare Parco Nazionale di Capital Reef, nel Sud dello Stato dello Utah. Coabita con i pini millenari sul Great Basin in Nevada.

  1. Schulman Grove: a passo d’airone fra i quattromila lungo la Scalinata degli alberi antichi

Mentre faccio colazione l’immancabile scoiattolo nero scende e s’impegna nel rosicchiamento d’una pigna. Cinque minuti cinque per farne fuori una. Mentre succhio le dita dalla marmellata di fragole che ho spalmato sulle fette di pane salato lo scoiattolo arriva a distanza di sicurezza e inizia a inveire: «Gnee gnee gnee». «Prima o poi ti sparo» provo a minacciarlo. Si offende, sale in castigo e mi da la coda. Sono le 7.15 e il sole è già caliente. Mi accorgo di alcuni movimenti rapidi, ma non sono insetti: sono uccelli piccoli come farfalle che vivono dentro le chiome dei pini. Volando da un ramo all’altro producono uno schiocco di lingua. Penso allo scoppio delle bolle del pluriball. Li ho già sentiti la notte ma non credevo fossero quel che sono.

Riordino e chiudo la tenda. Ridiscendo a Big Pine e imbocco la strada che porta in un deserto di pietre, presto sostituito da conifere e ginepri. La striscia d’asfalto con la doppia riga gialla al centro sale e scende e la si segue educatamente, diventa la mia personale scia chimica da formica. Il cartello della Inyo National Forest compare nel deserto e pare una presa in giro, come ritrovarsi in piena estate in pianura padana togliendosi il sudore che gronda dalla fronte e leggere l’indicazione «Spiagge Rimini 258 km». Concerto di sopracciglia alzate. Costoni di roccia scura sfaldati dal sole, dopo circa dieci miglia supero un ragazzo in bicicletta che pedala come un forsennato nell’inferno di calore, la maglietta zuppa, un eroe. S’iniziano a superare i mille metri, pineta minuta e composta. La roccia scura lascia il posto alla sabbia, ma i pini restano. La temperatura scende, posso abbassare il finestrino. Un padre tiene in braccio il figlio e insieme osservano i dettagli della fronda d’una pianta. Sono in contemplazione. Penso a mio padre. Al bene che volevo a quell’uomo che mi guardava, mi parlava, mi accarezzava e mi strizzava l’occhio. Era sangue del mio sangue. Sono riuscito a conservare una foto di quella parte della mia esistenza nella quale ero ancora un neonato, tre o quattro mesi, al mare, forse in Romagna, probabilmente nel mese di agosto, l’unico disponibile per le vacanze della gente comune. E una delle due foto che mi restano della mia famiglia naturale, una storia che e evaporata.

L’ingresso del parco e segnato da una casupola vuota, si prosegue e s’arriva al centro visite. Dopo aver percorso tredici miglia sbuca un cartello col nome del parco, University of California, Research Station e il disegno d’un binocolo stilizzato, in bianco su sfondo terra di Siena. Altro cartello con le distanze: campeggio Grandview cinque miglia, Sierra Viewpoint otto, Schulman Grove dieci, Patriarch Grove ventidue. Quindi in verità da Big Pine allo Schulman sono ventitré miglia, trentacinque per il Patriarch. Mi appropinquo ai duemila e si vede, perché ai pini s’affiancano i ginepri. C’e un punto panoramico, mi fermo e mi faccio invadere gli occhi: la vallata, distante, appena accennata nel denso colore di sabbie; c’e anche il ghiacciaio sotto il quale ho dormito la notte, un triangolo di luce chiara, sopra nuvole naviganti. Pennellate di colore sulle punte delle montagne, bianco svirgolato, le ombre viaggianti delle nuvole che macchiano valloni e canaloni. Quasi un paesaggio africano. A quota 8000 piedi (2,6 km) il profumo delle bacche di ginepro e intenso. Dio guarda il mio umano e lo accarezza. Gli uomini da quassù sono invisibili. Difficile credere che a breve distanza esista l’Olimpo delle conifere.

Si arriva a destinazione. La strada si livella e oscilla, gli unici ciuffi d’erba sono al lato della strada. Le cime sono ricoperte di muschio olivastro, la pineta che si prefigura in lontananza e dalla parte destra del tragitto. Eccoli i Bristlecone Pines, superfici lisce, punte che scappano, saette giallastre congelate nel grigio dei legni morti. Alberi piccoli, bassi. Parcheggio e baita appena rifatta: portico, tetto verde, finestroni. Tabelle esplicative. Legende con cartine, sentieri, notizie botaniche e storiche. Entro, pago i tre dollari per visitare il grove, e noto un libro pubblicato dalle edizioni dei Kew Gardens di Londra: Ancient Trees. In copertina cartonata la corteccia dei Bristlecone. Sottotitolo: Alberi che vivono per migliaia d’anni. E curato da Edward Parker e Anna Lewington. Spendo gli ultimi trentadue dollari e spiccioli per il libro, spille, magneti e due cartoline. Un ranger dai capelli rossi mi dice che ci vuole un’ora in auto per raggiungere Patriarch Grove. Una sua collega, bionda, i capelli raccolti in una treccia, sorride: indosso la maglia verde col logo dell’orto botanico di San Francisco. Ritiro un primo dépliant, gratuito, e ne compro un secondo a un dollaro, titolo Methuselah Walk: la camminata del Matusalemme, sottotitolo Il vostro viaggio attraverso la più vecchia foresta vivente. Dal centro visite partono tre sentieri: il Methuselah Trail (lungo quattro miglia e mezzo, si passa vicino a Mathuselah, il 4000 anni, ma senza essere segnato per evitare danni da parte dei visitatori più sciocchi e incauti), il Bristlecone Cabin Trail (due miglia, le “cabin” sono state edificate da minatori messicani) e il Discovery Trail (un miglio). Scelgo il più corto ma espressamente perché transita lungo la Scalinata degli alberi antichi (Pathway of the Ancients). Un cartello chiama il grove Ancient Bristlecone Pine Forest.

Lo spettacolo di colori, sfumature, variazioni armoniche, contorsioni e ramificazioni e indescrivibile. I pini sono spettacolari fin nei più piccoli dettagli: i rametti a cinque aghi, le pigne violacee lunghe 4 o 5 cm, l’odore pungente delle resine. Il terreno e alcalino con tracce di dolomia. Forse e anche per questa composizione chimica che non mi sento poi lontano da casa. Il colore riflette parte della luce del sole diminuendo il tasso d’evaporazione del suolo. I Bristlecone Pines sono le uniche piante lignee capaci di sopravvivere su questo suolo. Il giallo e carne viva, nel senso che e ciò che resta del legno decorticato. C’e un’altra specie che accompagna il longaeva: e il Pinus flexilis o Limber Pine, che si distingue perché ha aghi più lunghi, pigne senza uncini e cortecce grigio chiaro. Detto cosi sembra facile, ma non lo e affatto. Passa uno scoiattolo con la schiena bianca striata da tre linee nere, la testolina marroncino chiaro. Si ferma e mi guarda manipolare una pigna: lancia un urletto acuto, aspirato, come a dire: «Ma come ti permetti!». Impavidi, gli scoiattoli californiani.

Uno dei primi alberi che s’incontrano e uno “spento”: e morto nel 1676, all’età di tremiladuecento anni. Si possono vedere le geometrie concentriche degli anelli – Rings of Life –, cento anni possono essere racchiusi in un pollice di crescita (2,54 cm). Svolazzano alcuni grilli, li ribattezzo grilli-mitraglia per lo schiocco ripetuto che emettono; hanno la corazza grigio-azzurra ma quando volano spalancano le ali accendendo lampi rosa. Si sale a zig-zag. Negli esemplari caduti l’unica parte che tende a restare gialla sono le radici. Nel mio passo pesante e lento arrivo ad una tabella che spiega come il professor Schulman abbia iniziato gli studi a nord, ma le scoperte più interessanti si siano rivelate sul versante opposto, dove batte spesso il vento e il clima e più asciutto: i pini producono un legno più resistente, compatto e resinoso, il che aiuta la longevità. Concerto di scoiattoli striati su alcuni pini frondosi. Arrivo ai piedi d’un gigante con ramificazioni sparate a raggiera, una sorta d’istrice giallo e grigio, radici contorte; e uno dei più grandi che si possano avvicinare nel grove. Davvero uno splendore, senza nulla togliere ai maggiori ficus del Nord America che ho visto a Los Angeles e Santa Barbara o ai cipressi che ho visto a Carmel e San Francisco. Sono davvero vanitosi i pini: sotto i raggi del sole di mezzogiorno risplendono come se non attendessero altro. Pattuglie di grilli-mitraglia mi trafiggono.

Scalini incastrati nei sassi segnalano l’inizio della Pathway of the Ancients, dove Schulman nel ’53 scopre i primi. Certe radici hanno la consistenza materica della pietra, venature rosa, sabbia, cannella. A sinistra un albero mostra cerchi legnosi che paiono incisi col goniometro. Mi avvicino lentamente e mi vedo a occhi chiusi col naso che accarezza il giallo veicolare delle cortecce. Rialzo le palpebre e trovo per alcuni istanti il volto sfacciatamente giovane di mia madre. Nuovamente mi arrendo alla cicuta. La sua vita – se e ancora vita – si sta consumando lontano dalle mie traiettorie, in un mondo che non e più quello che i miei consimili sono abituati ad attraversare. E un mondo di visioni ma orfano di lirismo. La schizofrenia e la peste della mente. Una piovra che si alimenta della sua stessa solitudine, che allontana gli altri, spaventati, incapaci e probabilmente impreparati ad affondare le braccia in quelle paludi di fosforo e zolfo. Inutile aggiungere che uno dei miei bagagli più pesanti e il senso di colpa per non aver saputo e potuto fare nulla. Vero e che lei non s’e mai sentita madre, ero alla fine un caso che le era capitato, una forzatura di suo marito, non una scelta. Nella terra da cui veniamo a vent’anni ci si sposava e si mettevano al mondo figli, altro non era contemplato, a parte lavorare sodo. In un improvviso colpo di buio incido su alcuni fogli una poesia a cui non so trovare titolo.

Penso alle mani di mia madre.
Penso ai suoi occhi che sono entrati
bussando in ogni stanza della vita.
Al suo dolore sordo che non cessava nemmeno
quando le mani cercavano di non sentire.
Penso alla solitudine cieca che l’ha smontata,
che le ha cavato via il sorriso e il pianto,
che le ha segato il futuro come la nebbia che,
nei lunghi inverni, taglia via cime ai pioppi.
Penso alle sue braccia trasparenti,
come gli arti di quegli scheletri viventi
che si ammucchiavano nei campi di cui
abbiamo dimenticato nomi e geografia.
Penso al suo buio perpetuo,
al suo rosario incarnato fatto d’ossa,
al forcipe che si e conficcata nel ventre
del pensiero, una meccanica rovesciata,
a cui non ha più saputo cambiare verso.
Penso a quelle mani che erano di madre,
e che ora vivono dentro le mie, nascoste,
senza riuscire a stringere un ciuffo d’erba.

Mi accomiato dall’anima di mia madre e ritorno alla foresta scolpita che mi circonda. Esemplari sulla destra sono fiamme immobilizzate in procinto di ricominciare ad ardere. Altri sono cresciuti come stelle marine impazzite, non si capisce se siano uno o più pini saldati insieme. Costellazioni luminose. Mi siedo e resto immerso nella bellezza, nell’ombra accennata della foresta antica. Non un rumore. Nemmeno esseri umani. Sorseggio l’acqua dalla borraccia gialla che ho comprato al Sequoia National Park. Nemmeno ai piedi delle sequoie ho provato tanta pienezza, un’esperienza che e religiosa anche se non si celebra nulla di ultraterreno, nulla di trascendente, ma la vita e la morte cosi come si rimescolano sulla Terra. Una vita che condividiamo e una morte che ci toccherà. Sono sensazioni di unita e placidità che provo anche quando vedo le foto degli animali selvatici negli ambienti naturali. Mi vengono in mente gli scatti in bianco e nero del fotografo brasiliano Salgado, certi leoni marini, certi albatros, certi felini maggiori. Massaggiando la barba incontro una goccia di resina che dev’essersi fatta strada dopo che ho maneggiato una pigna, forse quando lo scoiattolo striato m’ha redarguito. Ecco perché ne sento il profumo, costantemente, come se fosse stato dipinto nelle narici.

Un cartello segnala galantemente che mancano cento piedi alla vetta. Non avendo nome mi verrebbe da ribattezzarli tutti: il Girotondo, l’Idraulico, lo Stendiabiti, l’Acchiappamosche, la Famiglia, il Re. Alcuni dimostrano una forza inaudita: restano fusi insieme anche quando la pietra sotto di loro s’e sfaldata. Il sentiero vira a sinistra ma la collina prosegue a salire, in una zona circoscritta e vietata. Lassù abitano altri vegliardi. Lo spazio si apre sconfinato e vi si può sfogare lo sguardo. Un po’ di fiatone c’é, mi siedo sulla panchina. Appena il sole si copre il bosco cambia colore, ora sembra autunno. Una donna dai lineamenti asiatici mi si avvicina, nasconde gli occhi dietro occhiali a specchio e i capelli nerissimi sotto un cappello da pittore, un basco. Mi dice se la voglio accompagnare oltre lo steccato, su, e ci giriamo insieme a scandagliare la cima della collina dove abitano altri millenari. Le sorrido e ringrazio ma non mi pare una buona idea. Certo, lei è molto graziosa, ha qualche anno più di me e questo volge a suo favore. Ma non me la sento di correre il rischio di farmi arrestare. E di certo non in un Eden pietrificato come questo. Senza dire nulla si alza e procede, scavalca e resto a fissarla fino a quando scompare oltre la cresta. Ancora adesso, a distanza di anni, mi chiedo se non fosse uno spettro.

Eternità. Una parola complessa. Otto lettere per esprimere qualcosa – una condizione, uno stato, un moto perpetuo – che s’apre nel momento stesso in cui cerchiamo di definirlo: un magma che si spalanca sopra e sotto di noi. Eternità che per l’umano diventa immortalità: «Chi vuole controllare troppo l’esistenza, soffre di un inconfessato desiderio di immortalità, e da questo non e mai venuto fuori niente di buono», scrive l’olandese Cees Nooteboom nel suo splendido romanzo Le montagne dei Paesi Bassi. Il nostro corpo e dotato di scaglie e di branchie, oltre la materia che conosciamo e riconosciamo, oltre la biologia, oltre la tavola anatomica che da bambini abbiamo appreso a sfogliare. La carne e le ossa di cui siamo fatti mantengono una memoria marina, in noi permane un respiro acquatico, che entra in risonanza – emotiva, psicologica, fors’anche  intellettuale – con certe meraviglie della natura, siano esse appartenenti alla nostra stessa specie oppure altre creature viventi, ma anche paesaggi, montagne, oceani o isole e alberi, foreste, grotte. Ci sono momenti nei quali non sentiamo nulla, camminiamo al minimo, senza vedere connessioni, senza pensarle, credendo di essere pura solitudine abbandonata a sé stessa e dimenticata da un Dio di cui non vediamo traccia o significato. In altri frangenti attraversiamo la gravita dell’opposto polo dell’impero dei sensi: siamo investiti, siamo un satellite di spilli vibranti, non riusciamo a contenere l’enorme flusso di informazioni che la pietas ci porta in dono. Camminiamo sospesi in un’armonia

cosmica che ci avvicina alle stelle del firmamento, quella forza, quell’energia che governa i meccanismi celesti. Il buddismo parla di “satori”. Lo studioso giapponese Daisetsu Suzuki scrisse: «Satori, in termini psicologici, e un oltre i confini dell’Io. Da un punto di vista logico e scorgere la sintesi dell’affermazione e della negazione, in termini metafisici e afferrare intuitivamente che l’essere e il divenire e il divenire e l’essere». Chi pratica il buddismo zen raggiunge questa liberazione del pensiero dal dominio dell’io attraverso la meditazione, altre persone probabilmente ci arrivano camminando, immergendosi nella natura, combattendosi dall’interno negli stessi giorni in cui si obbligano a lasciarsi dietro molte comodità e il senso di sicurezza a cui ci siamo abituati nelle nostre calde abitazioni. Viviamo ore di illuminazione, di satori (Kerouac lo sfiorò a Parigi, un Uomo Radice lo sfiora a tremila metri sulle White Mountans), ma anche ore di disperazione, di desolazione. Le vie di mezzo sono scarse, rare. Siamo pendoli che oscillano fra un polo e l’altro, fra un sud e un nord, fra un oriente e un occidente. Talvolta portiamo addosso un grosso segno meno, talvolta un segno positivo.

Il sentiero inizia a scendere. Si passeggia sopra schegge di roccia rosata, quarzite, ma prima di tornare a valle incrocio una coppia di alberi fotografati: il primo e una fiamma con diverse crescite spinosissime e un accenno di fronda nel cuore, l’altro e uno “spento” avvitato, un danzatore solitario, lo stesso che ho visto la sera prima in foto e su uno dei magneti che ho comprato al centro visite. Lo ribattezzo Fred Astaire.

  1. La polarità dell’esistenza a quattromila metri:arrivare in cima alla Montagna Bianca e scoprire che tutto vive dentro il corpo di cui siamo fatti

Dal grove parte una strada di quattordici miglia, la Ancient Bristlecone Pine Scenic Byway, un’ora di balzelli e polveri, pietrisco e punti di domanda. Sopra i cieli passano non di rado i caccia militari, il boato si rincorre nelle vallate e mi rammenta d’essere in una delle superpotenze militari del pianeta, una nazione che da mezzo secolo muove guerra in qualsiasi parte del mondo per consentirsi lo stile di vita che i cittadini “pretendono”. Fra le cinque e le sette miglia tocco un altro grove, senza nome questa volta: le tinte sono quelle della Scozia. A destra cresce un esemplare a spina, molto bello. Lo fotografo. Dietro la vallata alcune cime dolci. A tre miglia uno scoiattolo striato corre a lato strada, non si vede un albero per miglia di distanza, ma da dove viene? E dove va? Vorrei dargli un passaggio ma non credo che si faccia caricare. Non e come uno dei miei gatti, Stromboli, che si fa portare in giro in auto, da me e da chiunque capiti nei paraggi. Vuoi mai che si metta a rosicchiare un sedile. Un cartello scrostato annuncia l’arrivo al Patriarch Grove, a ben undicimila piedi (3900 metri). Primi viventi incrociati: una jeep zeppa di “veciet”, non so se siano più annosi loro o gli alberi; ci sarebbe da verificare gli anelli.

Un miglio asfaltato e l’ultimo tratto, invero il più sassoso e polveroso; si sbocca su un pianoro. Primo parcheggio al mondo su pietre aguzze. Ma cosa ti aspettavi a pochi passi dai quattromila? Spengo il motore accanto a un edificio quadrato, l’agognata toilette. Vedo diverse “bestie”. Si tratteggiano due sentieri: il Timberline Ancients e il Cottonwood Basin Overlook Trail, entrambi corti meno d’un miglio. Sono segnati su uno dei dépliant che ho preso al centro visite. Foto di Lessie, si, proprio Lessie, il cane del piccolo schermo, che e venuto a girare scene d’un telefilm nel ’65. I miei genitori non si erano ancora sposati, anzi non si erano nemmeno conosciuti, nel 1965. Lessie sapeva stare in posa come nessun altro cane nella storia delle televisione. Dicono. Scrivono. Il Cottonwood porta sulla collina, si manifestano esemplari di grande dimensione. Mi avvicino ad un riccio: sei colonne appuntite sul lato destro, una ramificazione frondosa a sinistra, base nella quale coabitano diverse piante. Le parti più chiare sono le punte a destra, in alto, le più scure, dove c’e ancora corteccia e vita, a sinistra. Che sia lui il Patriarca? Apro il libro che ho comprato il giorno prima, la foto mi sconfessa. Il sentiero sale, devo stare attento a dove metto i piedi, le rocce si scagliano e si scivola. Frano.

Tornato al punto di partenza imbocco il Timberline. Pochi passi e arrivo al quarto bestione che e la meta: è il Patriarch, il più grande pino longaeva conosciuto per circonferenza del tronco. Lo segnala una lapide inserita in una pietra posta davanti all’albero il 2 settembre del 1974. E stato scoperto nel ’48 dal forestale Noren, poi ritiratosi in pensione nel 1954. Trentacinque anni di attività come ranger nel distretto del Monte Whitney; tre anni più tardi l’albero viene inserito nella lista dei grandi alberi dall’associazione American Forestry come il piu grande Bristlecone Pine. La sua determinazione porta Schulman qui: il Patriarch diventa uno dei protagonisti del celebre speciale uscito sul «National Geographic Magazine» – che ho già citato – pochi mesi dopo la morte del professore, appena quarantanovenne, nel ’58. E un albero a forma di fungo: un’ampia base di trentanove piedi di circonferenza, dalla quale spuntano nove esemplari che coabitano. Come scrive Lanner si tratta d’un “clump”, un raggruppamento; s’apre in varie direzioni raggiungendo la dozzina di metri in altezza. I pini esterni sono in salute e portano ancora la corteccia, mentre le sezioni spinose e gialle stanno al centro, all’interno della chioma. L’età, nonostante la dimensione, si aggira intorno ai millecinquecento anni. Paragonato al nostro ciclo vitale e un ventenne.

Resto a gustarmi lo stordimento del viaggio, dei numeri, la poeticità d’un paesaggio lunare in pieno giorno. Gli aggettivi sono la spina nel fianco di qualsiasi poeta e narratore. Abbondano invece nella cosiddetta letteratura di viaggio, ma e un peccato. Il paragone col satellite del nostro pianeta e ahimè scontato, quando si cerca di suscitare nel lettore l’idea, l’immagine, d’un paesaggio extra-ordinario. Nelle pagine precedenti sono ricorso a tale espediente almeno in tre passaggi. Ma qui interviene Cees Nooteboom, che tratta come si deve coloro che abusano dell’aggettivo “lunare”: «I giornalisti di scarsa inventiva lo paragonavano sempre a un paesaggio lunare, ma io devo ancora vederla la luna dove puoi dormire accanto a un torrente impetuoso, in un rifugio costruito con grosse pietre». Appunto.

Nel parcheggio, mentre ritorno all’auto, incrocio un volto che ho già visto al primo grove. E un uomo di mezza età, capelli corti sparati e faccia butterata. E seduto sul piano abbassato del suo furgoncino bianco, sta scrivendo ed e circondato da libri. Una matita gli spunta sull’orecchio destro. Scarponcini, jeans, maglietta a maniche corte. Ci guardiamo e salutiamo. Iniziamo a parlare. E un ricercatore dell’Università statale della California, e qui per studiare le erbe e i muschi, li sta catalogando. Si chiama Peter ed e mezzo irlandese. Ci stringiamo la mano. Parliamo per un po’ del Patriarca. Peter conosceva Noren, quand’era ragazzo s’erano incontrati la prima volta proprio qui. Ai tempi non c’era ancora la strada e arrivarci era un’impresa. Dovevi essere davvero motivato. Ci potevi arrivare a piedi, lasciando l’auto all’altro grove. Quando venne tracciata la strada Peter si arrabbio per i denari che sarebbero stati spesi, soltanto in un secondo momento ha compreso l’importanza di consentire a tanta gente di raggiungere il grove. Ci sono persone che coltivano una forma particolare di gentilezza passando molto tempo da sole, altre invece si inaspriscono, si fanno impazienti, nervose, irreprensibili. Peter appartiene alla prima specie. Lo riconosco subito, lo sento, anche col naso. Mi dice che qui e bello quando sta per piovere, s’alza un odore dalla terra che e indescrivibile.

Non riesco a capire ma questo mondo a parte ha qualcosa che mi riporta a mia madre. Continua a tornarmi in mente. Non sarà capitato qualcosa al suo corpo e quindi l’anima viene in visita? Non saprei nemmeno cosa realisticamente augurarle. E di questo, sinceramente, mi vergogno. L’arruffato presagio nefasto viene spazzato via dal ricordo d’una sua risata. Mi sembra di sentirla ridere. Qui, a due passi dal cielo. Le riusciva benissimo, di ridere, splendidamente: s’illuminava tutta, gli occhi bruni, le sopracciglia che si drizzavano, la bocca che era sempre tinta d’arancio. Appena finiva di ridere tornava a essere malinconica. Ma quando rideva sollevava il mondo, contagiava qualsiasi paesaggio circolasse intorno. Era il suo dono. La Fausta…

E proprio qui, accanto ad un uomo che ho appena conosciuto, nel posto degli alberi più antichi del pianeta, che mi si disvela il senso, l’esito d’un calcolo che cercavo di fare da anni, ma senza riuscirci. La mia e una natura di doppi, d’oscillazione fra due poli distinti e in contrapposizione. Da una parte l’esperienza solitaria della bellezza della natura, che reclama tempo, reclama risorse, reclama soprattutto silenzio. Dall’altra la condivisione, la spartizione del pane quotidiano con altre mani e con altre bocche, non moltitudini ma persone, individui con nome e cognome, parola e complessità da sfiorare. La solitudine da sola non basta, non c’e bisogno di farne un culto, cosi come non basta la socialità, per quanto ridotta o contenuta. Il segreto del mio passo dipenderà dall’abilita nel miscelare queste tendenze,  nel non farle entrare in conflitto. La  lacerazione divora le persone da dentro, come e accaduto ai miei genitori. Mi abbandono ancora alla frenesia della giornata, all’eccitazione della scoperta, di questa alberografia in altitudine, con i piedi e gli occhi piantati nell’ammirazione impagabile per un paesaggio sfumato, pittato di colori che non si possono che custodire, qui dentro – e mi tasto – per il resto dei giorni. Prego a mio modo con gli occhi. E mi raggiunge un ultimo penitente pensiero di Andrea Emo: «La Preghiera e la voce della solitudine; lo scopo ecclesiale non e di risolvere in sé le solitudini, ma di crearle».
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© Tiziano Fratus
Il testo, aggiornato, è estrapolato dal volume Il libro delle foreste scolpite, Editore Laterza, pubblicato nel 2016 e di cui è attualmente nelle librerie una nuova edizione in economica.