Il buddismo dell’assenza e del non praticare

MEDITAZIONE
Fare ecologia di se stessi?

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Riflessioni dopo anni di pratica… fare dunque niente per me stesso? Fare dunque niente di me stesso? Ho alternato periodi di pratica e lettura così come si insegna nei centri e nei templi del buddismo zen alle nostra latitudini: sessioni di zazen, lettura, il tentativo di comprensione dei koan, sutra, approfondimento della storia delle vite dei monaci e delle monache delle diverse scuole. E poi, in altri periodi, il nulla, la non pratica, tuttavia cammino nei boschi e riflessione aperta, lontano dal buddismo organizzato e in parte socializzato. Ho sentito di averne bisogno, le piccole comunità buddiste talvolta mi appaiono più ristrette e asfissianti che non l’assenza di ogni rapporto. Giocando con le parole mi viene da dire di essere un “buddista agreste” che ama meditare nell’orto, nel suo studio, nei boschi che attraversa; è qui che abita il “tempio”, là dove gorgheggia il ruscello, dove si sviluppa il sentiero, o dove riposa la sezione di sequoia che sta in casa, e mi chiedo: sono loro le forme del Buddha a cui inchinarmi?

Riprendo in mano i libri che ho accumulato, le parole dei Patriarchi sono una sfida, un incoraggiamento, pulizia. Yotaku Bankei mi è rimasto tanto nel cuore, se fosse ancora vita forse mi prenderei la briga di andare apposta in Giapppone per conoscerlo. Mi sarebbe piaciuto incontrare anche Tokusho Bassui, che alla domanda può un cane avere la natura del Buddha rispose con questa poesia:

Montagne, fiumi, e la vasta terra,

erba, alberi, e le foreste,

tutto è mu.

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Parteciperei credo agli incontri e alle meditazioni del flying zendo di Nyogen Senzaki, uno dei pionieri dello zen negli stati Uniti, nel primo Novecento. Andrei ad ascoltare Soen Nakagawa, portatore di una semplificazione dei ruoli e delle distanze a cui i giapponesi non sembravano e non sembrano proprio voler dare ascolto. E cosa dire dei monaci dei primi secoli del Ch’an, in Cina, forse quel poco che crediamo di sapere di loro probabilmente è sbagliato, idealizzato, sbilenco, condizionato dalla nostra contemporaneità, non a caso gli storici e gli studiosi parlano di buddismo leggendario, e dunque anche per questa sideralità, magnetico.

Nel tempo che passa si è rafforzato il sentire che il buddismo non stia tanto nei gesti ripetuti o nelle belle frasi gettate lì per compiacerci e compiacere, o sorprendere; in ogni pratica religios esiste un aspetto vanitoso, strumentale, che va a soddisfare una dimensione superficiale, è un aspetto suppongo presente, vivo, in ogni praticante. E dunque anche in me, l’ho riconosciuto in diverse occasioni. Nel tempo che passa si rafforza la percezione che il buddismo sia vero e concreto se si introducono nella vita di ogni giorno, fuori dai recinti sacri o spirituali, i valori del buddismo: mitigare se stessi, dissipare le proprie ambizioni, moderare come direbbero gli ambientalisti la propria impronta nel mondo, e come ricordavo in quel quaderno di spunti e meditazioni che è stato Sutra degli alberi, fare “ecologia di se stessi”.

Quella parolina che tanto viene invocata, “benevolenza”, è pesantissima! Scarsamente raggiungibile, ogni giorno la sento come un miraggio al quale non sono degno, oltremodo infusi come siamo in una società dove la presunzione ci condiziona, sommerge nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni familiari e affettive. A cosa mi servi? Ecco forse desidero una utopia nella quale le altre persone non servissero a niente, deaiderei un buddismo senza scopo, non un ennesimo capitolo della mia esistenza declamata e dichiarata. Bankei, da uomo oramai in là negli anni, diceva: «Che le mie parole siano lasciate ai passeri per giocarci». Uno scrittore, un poeta, un po’ soffre per questo, si vorrebbe che le parole resistessero al tempo e alle mode, che superassero il confine della propria esistenza, ma forse il segreto, o uno dei segreti sta proprio nel non prendersi sul serio, nel giocare, nel giocarsi. Che non vuol dire non dire, non capire, o non vivere.

Agosto 2023 (emendato nel marzo 2024)

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