L’albero Poeta di Hokusai

LI PO: IL VECCHIO POETA E’ UN ALBERO A CUI AGGRAPPARSI

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Il ruscello. L’acqua che sgorga da una fonte. Attraversa l’insinuarsi del bosco nella collina, o nel ventre della montagna. Raggiunge i nostri sensi, dapprima con l’incanto ventriloquiante del suo rincorrersi di salto in salto, nel suo virare accanto a rami spezzati, sassi muschiati e minuscole anse terrose. Quindi con la manifestazione di secchiate di acqua limpida, pronta ad essere immersa dalle mani che ne pescherebbe come dopo l’attraversamento di un deserto. Viene sempre sete, quando si sente e poi osserva il cammino inesausto delle acque di un ruscello. Una sete che lentamente il nostro spirito saprà lenire, colmare, appianare. È accanto a ruscelli come questo che Confucio andava a pensare ai suoi antichi e che i padri del taoismo riflettevano e prendevano appunti. Il bosco, meglio, la selva, e le acque. Un oceano incardinato che non smette di fluire, di cantare, di innalzare preghiere che qualche altro essere vivente ascolterà e accoglierà, invitato al banchetto della generosità del pianeta.

Quale rapporto esiste tra un uomo e un ruscello? Sintesi di una risposta possibile l’ho avuta visitando la mostra milanese dedicata alla visione del mondo così come ricostruito e intessuto da Katsushika Hokusai, Utagawa Hiroshige e Kitagawa Utamaro, maestri della pittura giapponese, vissuti fra la seconda metà del XVII e metà del secolo successivo. Nella costruita e densa città di Milano, a Palazzo Reale, ho ammirato una selezione delle loro opere, del loro mondo fluttuante e colmo di visioni naturali: paesaggi, alberi, cascate. Fra i tre il gigante che svetta è Hokusai, grazie anzitutto alle tavole del ciclo Trentasei vedute del Monte Fuji, Viaggio tra le cascate giapponesi, Vedute insolite di famosi ponti giapponesi, nonché la celebre tavola L’onda (La grande onda presso la costa di Kanagawa), prepotente visione che occupa il centro di una delle stanze più spettacolari. È qui dentro che possiamo osservare l’industriosa attività delle presenze umane, i ponti a tamburo, i cavalli espressionisti, i grandi cappelli-ciotola che servivano per ripararsi dagli elementi quanto per mangiare, le dame dalle acconciature elaborate, infilzate e volumetriche, i cieli rannuvolati, la fatica dei falegnami che tagliavano il legno con seghe manuali che avranno consumato ossa, legamenti e carni. Immense conifere occupano le rupi e risalgano i fianchi del Fuji, spuntano nei passi di montagna e dominano gli uomini con le loro dimensioni colossali. Notevole la mappa delle stazioni di un viaggio fatto da Hiroshige percorrendo la via postale Tokaido, che univa Edo – l’odierna Tōkyō, capitale amministrativa nel periodo dei Tokugawa – a Kyōtō – l’antica capitale spirituale e imperiale, passando per la mitica penisola di Ise, emblema di boschi, templi, natura e spiritualità. I volti delle dame di Utamaro, che tanto mi erano piaciuti da ragazzo, questa volta mi sono parsi invero ripetitivi e noiosi. Hokusai ha realizzato una serie dedicato alle cascate giapponesi, vaste ragnatele lattiginose, istoriate su pietre azzurre, nel cuore di fitte foreste dove gli uomini, nelle posizioni più curiose e aneddotiche, si inchinano, pregano, riconoscendo la potenza maestosa della natura, e delle divinità che la innervano. Ricordo ad esempio la cascata Kinfuri sul monte Kurokami, carambola di flussi che si spaccano incontrando le pietre aguzze e si aprono a ventaglio discendendo verso la rocce alla base del monte. Ne ho una cartolina nello studio, accanto al telefono verde. Ogni tanto socchiudo gli occhi e mi avvicino. Mi pare di sentire un vociare remoto, incantatorio.

L’emozione più grande però l’ho provata di fronte alle tavole verticali dedicate alla serie Specchio dei poeti giapponesi e cinesi di Hokusai. Il formato, la ricchezza dei colori, il tratto deciso e fiero dei caratteri umani. Fra queste splendide tavole sarei rimasto ore ad ammirare Rihaku (Li Bai), un anziano monaco poeta (noi lo conosciamo come Li Po, uno dei massimi poeti d’epoca T’ang) di fronte ad una cascata verticale, imponente. Anche senza socchiudere gli occhi ne immagini, senza alcun sforzo, il fragore. La caverna. Il desiderio di farsi trascinare lì sotto, secondo l’andamento dell’universo naturale. Il vecchio poeta si tiene stretto al suo bastone istoriato, e al suo corpo, fra le vesti, sono aggrappati, come ad una roccia o ad un vecchio pino contorto, due bambini, che si nascondono, per non sentire lo spavento del rumore. La natura si fa sentire quando si arrischia, quando è pericolosa. State lontano, state lontano, sembra gridare ai passanti. Ma a guardarlo mi viene da pensare che i bambini siano così stretti per timore della vita che li attende. Il viso del poeta è quello d’una volpe che osserva i suoi pargoli.

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Estratto da Interrestràre – Quaderno di meditazioni, Lindau, 2019.

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