Al principio esiste il silenzio

MEDITAZIONI AL FIORI DELL’INVERNO

[dicembre 2021-aprile 2022]

.

DIARIO

5 dicembre, eremo delle radici, Trana | Stamattina la febbre percorre ancora il corpo. Lo battezza con tutta l’ingenuità delle prime volte. Dopo tanto lavoro, quest’anno, sono di nuovo a casa, senza dover pensare a scadenze immediate.  Tutti gli impegni eventuali sono affastellati soltanto nella mia fretta di esistere. I boschi sono pronti all’inverno, le montagne alle nostre spalle in effetti sono già imbiancate. Apro la finestra del mio eremo, non prima di essermi inchinato al Buddha-sequoia. Poi mi inchino al mio sangha arboreo, i boschi qui di fronte che si rincorrono sulla collina. Domattina riuscirò finalmente a tornarci, stamane mi accontento di ringraziarli.

6 dicembre, lago piccolo di Avigliana | All’alba le cime innevate si specchiavano nelle acque pacifiche. Ho meditato sotto alcuni carpini e querce, in riva. Guardando sopra la testa ho ammirato i geroglifici tracciati a diverse altezza dai rami degli arbusti spogli che condividono l’accesso alla luce, in questa frontiera interna della boscaglia. Se gli alberi si comportassero come noi umani sarebbe arrivato un albero più alto che avrebbe occupato lo spazio aereo togliendolo a tutti gli altri. Ennesima riprova di quale strada, prima o poi, l’umanità che ci sarà non potrà far altro che prendere. Seconda meditazione a fianco del ruscello: quanto spazio vedo ora che il bosco è completamente trasformato. Rientrando alcuni pensieri mi hanno fatto scorgere l’albero nero che cresce dentro di me. Le sue radici sono lunghe e condizionano quel che penso, le immagini che poi diventano apprensioni e timori e propensioni al conflitto. Dovrò lavorare molto per scalzarlo via, per allentare la sua presa e abbatterlo, sperando di non fallire miseramente.

7 dicembre, eremo delle radici, Trana | È ancora notte, dalla finestra inizia a colorarsi il canto ritmato di un gallo. Credo riecheggi dalla cascina oltre il prato alla base della collina boscosa, forse trecento metri da qui. Siamo vicini di casa ma non ci siamo mai parlati. Una volta sono andato a citofonare per chiedere se i nostri gatti per caso vadano da loro a questuare cibo ma una signora scorbutica mi ha risposto che a loro non frega, passano tanti gatti, chissà. Fine della conversazione. Da queste parti si fa così. Il gallo canta nella notte, sono soltanto le quattro e mezza, le prime luci dell’alba non si presenteranno dal cielo sopra la periferia di Torino che dopo le 7, eppure il gallo canta. Quando il canto di un gallo ti raggiunge si creano immediatamente delle aspettative: vedi, o forse sarebbe meglio dire, “senti” un’aia, una rete, un piede che scalcia la terra, galli e galline e altri animali, la cresta rossa, lo sguardo sfrontato di un gallo adulto, il re del pollaio. Devo attendere che finisca di chiamarsi da solo, di indagare lo spazio attorno per sentire se altri galli gli rispondono, per dimenticarmi di questi ricordi, di queste manifattura della mente. Dovunque si mediti, ad un certo punto, si manifesta un gallo che canta.

8 dicembre, colle del Lys e val di Viù | La prima nevicata dell’anno! Nel buio risalivo la montagna tra i sussurri della neve. Ho meditato in auto, sotto una tormenta solfeggiata sul colle del Lys, attendendo il cambio di vestito del cielo. Soffi dopo soffi la neve è cresciuta e ha ricoperto l’intera auto. Neve come chicchi di sabbia contro il finestrino. Mi sono chiesto quanto tempo è precipitato dentro la mia clessidra, sentivo che si posava e poi scompariva, pulviscolari granuli compatti, minimamente miniati. Dentro c’erano nascoste delle parole ma non sono riuscito a leggere. Poi la luce mi ha accompagnato in val di Viù: le faggete ricoperte, le borgate silensiose, dall’aspetto abbandonato, i tetti doppiati, i tronchi ibernati. Sono uscito un paio di volte e il bianco mi ha accecato. A Viù sono andato a visitare due cari amici, ho abbandonato l’auto sulla provinciale e sono salito per un chilometro a piedi, fino a casa loro,una vecchia grangia con accanto un benal restaurato, i contadini vi lasciavano seccare i cereali che coltivavano nei secoli andati. Siamo a 920 metri di altitudine. La neve che i piedi spostavano sollevava sbuffi dell’inverno che poche giorni prima presagivo. Ora ci siamo dentro, completamente. I loro sogni sono vegliati da un pruno secolare che non mi ha riconosciuto e da alcuni castagni. Ho ricevuto un premio inatteso: un celestiale risotto ai funghi porcini condiviso con calore e affetto.

11 dicembre, eremo delle radici, Trana | Il laico Pang chiese al maestro Ma (709-788): “Che tipo di persona è colui che non ha coinvolvimento nei diecimila dharma?” (ovvero in tutte le esistenze?). Il maestro Ma rispose: “Bevi tutta l’acqua del fiume occidentale in un singolo sorso e te lo dirò”. Dove scorre il fiume occidentale? Passa anche accanto al nostro cuscino della meditazione? Oppure va cercato, va conquistato? Va studiato? E’ importante sapere se esista o meno questo rio? Ha un senso domandarsi se esista una sola persona che possa non essere coinvolta nei destini e nelle esistenze di tutte le cose? Può un uomo davvero troncare ogni forma di coinvolgimento? Tra un uomo dedito con passione e sincerità alla sua vocazione spirituale, un albero secolare e un sasso, esistono differenze?

12 dicembre, orto della Casa del leccio, Trana | La flebile luce che imbastisce i primi istanti dell’alba irradia le facciate delle ultime abitazioni del villaggio. Mentre in estate gli uccelli trionfano gli uni sugli altri per farsi sentire distintamente, ora quei pochi che cinquettano lo fanno con prudenza, quasi a non voler disturbare il sonno degli alberi nel bosco. La neve dei giorni scorsi li ha spogliati completamente e ha gettato i campi nel cuore gelato dell’inverno. L’orto è in letargo. I cavoli e i cavolfiori resistono, mentre i finocchi sono vinti, sepolti, spezzati. Le pentole con l’acqua dei gatti ghiacciate. I pettirossi si avvicinano alle case, compaiono nelle finestre; setacciano i sottovasi dove lasciamo i semi di girasole tostati, ne vanno ghiotti loro come le cince e le gazze. Tenere a bada la superbia, facile a dire, molto suggestivo da scrivere, ma per niente a farsi.

24 dicembre, orto della Casa del leccio, Trana | Alba rossa! Questa mattina il Buddha delle diecimila cose aveva fretta di fare giorno, ha buttato dentro l’alba tutti i rossi che conosceva. Il cielo ha preso fuoco, i boschi spogli hanno preso fuoco, le facciate e i tetti delle case hanno preso fuoco, i campi mineralizzati hanno preso fuoco, il viso del Buddha-sequoia in studio ha preso fuoco, e i pochi ortaggi nell’orto sono accartocciati in un abito da cocktail. Ho dimenticato di girare la terra prima dell’inverno, ora non lo si può più fare. Bisogna aspettare.

25 dicembre, eremo dell radici, Trana | Non c’è spazio per il rammarico, ne siamo così gelosi, talvolta! Quasi che perdendo i ricordi e i motivi di rimpianto perdessimo noi stessi. Simpatici coloro che dicono Che ci vuole, taglia! Simpatici e bugiardi, perché perdere noi stessi richiede una natura malvagia. E dunque che fare? Uccidersi? Decapitarsi? Dissanguarsi? Ma come? Nel silenzio? Nella pace? Nell’indifferente natura? Si ricomincia d’accapo. Ai piedi delle piante di kiwi sono cadute altre foglie secche, devo scendere a spazzare.

28 dicembre, orto della Casa del leccio, Trana | Mentre i cani dei vicini abbaiano cerco un po di pace nell’orto. C’è tanta luce, la luce non aiuta la meditazione, soprattutto se si è abituati a sedere all’alba. O nei boschi. Non ci faccio caso quando sono in ritiro. Il mio primo ritiro ha avuto per paesaggio un pomeriggio estivo a Scaramuccia. La finestra davanti a me dava sul giardino e c’era un mandorlo, credo fosse un mandorlo, che oscillava nella brezza. Taino, il monaco-fondatore, era ancora vivo, sembrava immortale, chi avrebbe mai potuto pensare che il covid lo avrebbe trascinato via da chi gli voleva bene? Sembra passato molto tempo, invece sono scemate poche stagioni. C’è una poiana che volteggia, il nido di una coppia è nel bosco sopra la collina. Mi vengono in mente le parole di un passo di un libro di Thomas Merton, Zen and the Birds of Appetite, Lo zen e gli uccelli rapaci. La mia memoria come al solito non è affidabile, così finita la meditazione torno in studio e cerco il passo. Eccolo: «Lo zen non arricchisce nessuno. Non c’è alcun cadavere da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uccelli vengono per un po’ a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il “nulla”, “nessun corpo” era lì, tutt’a un tratto appare lo zen: era stato sempre lì, ma gl’insetti non l’avevano toccato perché non era il loro genere di preda.» A me pare chiaro, eppure anche i predatori non mancano nelle sale di meditazione. Ma chi non è in parte un predatore?

1 gennaio, orto della Casa del leccio, Trana | Che cosa percepisce un cieco dell’alba? Come nasce l’alba nelle carni, attraverso i sensi, nella mente di un cieco? Che cosa vede? I rumori suggeriscono dei toni? Delle intensità? I galli che cantano dalle case intorno. Le chiacchiere di due contadini che si sono alzati presto e si sono appena incontrati accanto al laghetto dei pescatori. Il traffico soffuso che comunque scorre, macina, lungo la provinciale, dopo il corso del fiume. Come nasce l’alba nella mente di chi non vede coi nostri occhi? Che cos’è l’alba? Un inizio? Un transito? Una traformazione? O un’ora su una tabella ipotetica? I gatti mi vengono a infilare il loro naso freddo tra le mani, in questa prima alba del nuovo anno.

28 gennaio, eremo dell radici, Trana | Un ago di luna nel cielo blu. L’alba inizia ad essere una promessa. Una manciata di stelle. Da divere notti la temperatura scende sotto zero, l’acqua nelle pentole ghiaccia. Le erbe nei campi e i broccoletti nell’orto sono congelati. Mai stati così ridotti, così ridimensionati: le cose si fanno piccole pur di non scomparire. Come certi pensieri, e certi dolori, sembrano svaniti, dissolti, ma il nodo resta lì, apparentemente quiescente. Sono soltanto in attesa di un risveglio.

3 febbraio, riserva dei Laghi di Avigliana | Un mese e qualche giorno dopo l’inizio del mio covid finalmente ritrovo la forza e il buonumore di uscire e di avventurarmi in una scarpinata. In questi ultimi giorni le temperature notturne non sono più scese sotto lo zero e di giorno il sole riscalda. I gatti infatti passano le prime ore del pomeriggio sulle sedie, nelle ceste e sul dondolo in terrazzo. Abbandono l’automobile vicino ai primi alberghi che circondano il perimetro del lago grande o di Avigliana, e seguendo un sentiero che transita su un ponticello in legno mi avvio verso il lago piccolo o di Trana. Il primo chilometro costeggia case e proprietà private, poco dopo ci si allunga per sentieri talora melmosi che penetrano la riserva vera e propria, tra la costa del lago e il bosco che ricopre buona parte della collina sovrastante. In genere percorro questo sentiero in senso contrario. Ritrovo i grovigli di legni e i tronchi dritti, gli sbilenchi e diversi abbattuti, quattro giorni fa ha soffiato con insistenza il Föhn, caldo e secco, che ha lasciato più di un segno. Il baluginare della luce su certi tratti vicino alla costa rendono magici questi cammini, sebbene il traffico rumoroso viva a poche centinaia di metri lungo la strada che percorre la sponda opposta. Là l’ordinario, se vogliamo anche il brutto, il non particolarmente bello, e qui quasi un modesto paradiso degli imperfetti. Abbozzo una meditazione sul mio sasso muschiato tra le anse del ruscello, saluto la quercia alla quale mi inchino, come oramai d’abitudine. Rientrando noto le figure bianche di due alberi solitari che dominano la parte alta di una lontana collina, sopra la zona alberghiera che anticipa l’abitato di Avigliana. Spiccano perché la luce del tramonto li irradia, il loro biancore assoluto e lunare è affondato in un bosco degli spogliamenti, brunato, è impossibile non notarli. Sono soltanto due, ben sviluppati, due tronchi che risalgono e le chiome sparate. Probabilmente si tratta di due pioppi bianchi o montani, mi sembrano troppo grandi per essere betulle. Sembra il negativo di una foto, e mi fa pensare ad un acquarello che potrebbe aver schizzato Andrew Wyeth, o un altro pittore naturalista. Come mi piacerebbe saltare fin là in un sol balzo per constatare cosa si vede di là sotto.

4 febbraio, orto della Casa del leccio, Trana | Stanotte ha gelato. Il bosco è silenziosissimo, come se si fosse spopolato nel buio. Chi è passato a retinare via tutti gli uccelli? Ma poco dopo sono smentito da un pettirosso, si presenta sopra le piante di kiwi, schiocca deciso. I pettirossi sono uccelli da combattimento, un caratterino! Replico schioccando la lingua a modo mio. Saltella, risponde a mitraglia. Mi dichiaro sconfitto.

8 febbraio, orto della Casa del leccio, Trana | Da dicembre a marzo, quasi ogni mattina, verso una o due manciate di semi di zucca tostati in un portavasi, di quelli verde scuro. Gli uccelli del bosco e dei campi intorno hanno imparato che in questo orto c’è da mangiare, nei mesi del grande spoglio. Mentre medito sul gradino che divide il giardino dall’orto, accanto alle fragole rinsecchite dal gelo, alcuni uccelli arrivano, sono lesti, saltellano con un solo movimento di muscoli da un ramo all’altro, i più audaci si avvicinano e volano sull’albero che sta qui, a meno di tre metri di distanza, un albicocco. Il vaso è sulla ringhiera, a circa due metri di altezza. Tentennano, mi hanno notato. Ed io sorrido sotto i baffi. Ma non mi muovo. Allora si lasciano depositare sul portavasi, beccano un seme e volano via veloci come fulmini per posarsi sui rami degli alberi intorno all’orto, dove possono sbrecciare il guscio del seme e nutrirsi. Un albero di goji, un ciliegio, un melograno. Nella penombra cerco di riconoscere gli uccelli. Alcuni sono davvero piccoli, i più discoli. Poi ci sono le cince, quelle le vedo sempre. Cinciallegre, cinciarelle, cince more. Passeri, credo anche una capinera. Quando il sole è alto arrivano le gazze ladre, sempre in due o tre. Non temono nemmeno i gatti, sono spavalde. Ma questa è l’ora dei voli soffusi, delle piccole fughe, del mondo che piano piano acquista colore e sostanza.

15 febbraio, eremo delle radici, Trana | Due giorni fa, pochi minuti prima delle 13.30, è morto Stromboli. Era tra tutti il principe dei nostri gatti di casa. Tutti abbiamo pianto per il suo dolore. Viveva con noi da quindici anni, siamo andati a prenderlo al gattile comunale di Torino esattamente quindici anni fa, a fine gennaio. Un lagher. Lui e la Muma, la gattina che purtroppo ora è molto malata, erano nella stessa gabbia. Per me era come un fratello, un amico carissimo, forse potrei dire addirittura un figlio. Ho fatto di tutto per salvarlo ma non sono stato capace di fare abbastanza. L’arte di sopravvivere alle persone che ci hanno messo al mondo, la persistenza di sopravvivere agli amici e ai parenti più cari, ma anche agli animali che accudiamo con un amore quasi maniacale, richiede una forma di spietata indifferenza che mi disgusta. Ci abituiamo a tutto, o quasi, alla fine. Per chi sono le lacrime? Per loro, per lui, per lei, oppure per me? Quando poi raccontiamo di questo dolore, per chi reclamiamo compassione? Per loro, per lui, per lei, oppure per me stesso?

18 febbraio, orto della Casa del leccio, Trana | Nebbia. L’inverno non ci vuole ancora abbandonare. Gli alberi sono tornati tetri e tristi. La casa è più vuota senza Stromboli. E siamo anche tutti un po spaesati, come se fosse davvero venuto a mancare un centro. Si dirà: ma dài, era soltanto un gatto! Eppure… forse lui era un gatto eccezionale, noi siamo soltanto persone normali, così potrei dire, medie, massì mediocri, lui e il suo carattere ci aiutava a sentirci meglio: più forti, più solidi, più pronti alle avversità della vita. Quando ero ad alcune ore di viaggio e mi apprestavo a tornare a casa pensavo spesso: ti aspetta Stromboli, quando sarai a casa ti siederai sul dondolo e lui sarà lì, con te, a farti compagnia. Ora che se n’è andato, così, anonimamente, i gatti anziani sono soli e la gattina che l’aveva sempre amato si vede che lo cerca; talvolta si avvicina ai gatti che dormono tutti distanti gli uni dagli altri, e appena capisce dall’odore che non è lui si allontana quasi inciampando. Fa una tenerezza… siamo orfani. In questi giorni la tempesta sballotta le nostre piccole imbarcazioni senza scialuppa. Il silenzio del raccogliento ci lascia senza significato.

24 febbraio, orto della Casa del leccio, Trana | L’inverno ha immiserito il bosco che è tutto un ramo secco e spoglio. Ma il gelo è finito, è seppellito sotto metri di terra e forse ancora resiste soltando tra le radici delle pietre. Il gatto nero coda corta insidia un micio dei nostri, tigrato, alias Momo, ciccioso, pensa sempre che siano tutte gatte, ma le poche che abbiamo sono sterilizzate. Ma lui persegue, si ostina. Ogni tanto qualche uccello bisbiglia, appollaiato sui kiwi, o sul cumulo di paglia nei campi. Finalmente la terra dell’orto è tutta rovesciata, ho già sparso un sacco di stallatico in ogni rettangolo. Poco prima del tramonto c’è una calma irreale, soprattutto se si pensa che a poche migliaia di chilometri i carri armati russi stanno occupando città e marciando alla volta della capitale dell’Ucraina. Tutti siamo impreparati all’ennesima guerra, e anche la retorica del caso si rivela lacera. Ma qui, sotto questo francobollo di cielo ai piedi delle Alpi Cozie, sembra che l’unica preoccupazione sia quella di attendere l’arrivo e il manifestarsi della nuova stagione. I primi boccioli dell’albicocco iniziano a spalancare gli occhi della festa.

5 marzo, eremo delle radici, Trana | L’albicocco è in fiore. Una pioggia di petali appena intinti nel rosa più delicato. Poco prima dell’alba, quando il cielo si strappa alla compattezza della notte, i fiori si illuminano. Sembra che la luce sgorghi da dentro, invece di riflettersi dall’esterno. Non ci avevo mai fatto caso. Lo noto ora, spengendo la luce nel mio studio. Dopo l’inchino ho guardato il volto oscurato del Buddha che ogni volta mi acquieta e poi la finestra di fronte. Lì sotto oscillano i ramoscelli infiorati da poche ore. Gli uccelli concertano allegri, sembra una mattina più viva di altre, come se ci fosse fretta di fare giorno. A quest’ora l’unica guerra si manifesta nella vanità dei becchi.

8 marzo, orto della Casa del leccio, Trana | La primavera oramai sembrava lì lì per scoppiare e invece siamo di nuovo a zero. Cielo nuvoloso, aria gelida. Ma non nevicherà, e probabilmente nemmeno oggi pioverà. La terra ne avrebbe molto di bisogno. Noi ci rapportiamo a quel che ci circonda per capire, per sentire che abbiamo capito qualcosa, cresciamo, diventiamo grandi, diventiamo uomini e donne percependoci sempre più a fondo, sempre più in armonia col mondo che ci circonda; siamo, come si dice, la terra che abitiamo, siamo fatti addirittura degli stessi elementi di cui è composta la terra che ci ospita e nella quale radichiamo, da diversi punti di vista. Evviva, appartengo dunque sono. Ma poi può capitare che ti inoltri nella foresta del buddismo e ti ritrovi di fronte a insegnamenti come questo, di cui ha scritto, in versi semplici, Shido Munan (1603-1676): «Mentre la luna e i fiori / sono gli stessi la luna e i fiori di sempre / diventano la luna e i fiori / di chi li sta osservando.» La Via non esiste, il Dharma corretto e quello non corretto non esistono. O, come scriveva Munan: «Se sapete vi siete perduti; se non sapete vi siete di nuovo perduti – La Via del Dharma. Allora che cos’è la verità del Budda?» L’albero in fiore nel giardino.

26 marzo, Pineta San Vitale, Ravenna | Sono qui tra pini poderosi. Siamo un gruppo di estranei che cerca un poco di pace nel bosco. Nei cieli qui ci sono già le rondini che sfrecciano e annodano i loro strilli. Sole, cieli limpidi, sguardi lontani. Il mare è qui dietro, i canali puntellati di reti sospese che prima o poi verranno abbassate per pescare qualche pesce. Sono seduto su un cuscino di aghi di pino. Quando medito nel bosco vengo spesso raggiunto dal pensiero che qualche insetti stia per arrampicarsi su di me. Poi scema. Ma prima o poi, basta un rumore, un soffio,un crac minimo a terra, per suggerire questa eventuale introduzione. Ma poi, cara formica, se vuoi salire, sali, di spazio ce ne, mediteremo insieme, ciascuno a proprio modo.

3 aprile, orto della Casa del leccio, Trana | L’arrivo della primavera si è portato dietro la pioggia, finalmente. I nostri campi erano polverosi. Le nostre anime spaventate, oltremodo. Mentre sono in orto a meditare un bombo operoso sfida la bassa temperatura di questa alba per banchettare, il susino alle mie spalle è tutto un fiore bianco. Alcuni insetti vivono pochi giorni. Ardono di una vita intensa, necessariamente organizzata. L’istinto a correre, a consumare le tappe necessarie per potersi sostenere e riprodurre, comanda le loro poche giornate. Non riesco nemmeno ad immaginare l’inferno di bisogni che si debbono innescare nei loro corpi, quasi come se fossero delle macchine che eseguono le stesse operazioni stampate in un circuito. Sempre quelle, fisse, meccaniche, eppure biologiche. Anche noi siamo così? Nonostante tutte le nostre pensate anche noi umani non facciamo che attraversare il mondo per tappe obbligate? Ovviamente chiunque di noi davanti a questo dubbio si ferma, si ostina a dire no, io no, io so quel che sono, so quel che ho scelto, diversamente, di essere. Eppure qualche dubbio resta lì, sospeso, inespresso, inesprimibile, insolubile. Esisto? Una valle più in là chi sa che esistiamo? Un continente, oltre? Un pianetino, oltre…

7 aprile, orto della Casa del leccio, Trana | Anche la terza gatta anziana è spirata. Quante volte ho pigiato i caratteri della parola “morte” in queste pagine? La diamo sempre per scontata, e poi quando ci si avviciniamo le spariamo grosse, diventiamo tutti sommi filosofi della domenica, astrazioni paroloni equilibri equidistanza e molte altre cazzate. La morte non ha proprio niente da insegnare, e tu che ci si trovi di fronte, impotente, hai così da inscenare la parte di quel che sa, di colui che ha capito, che la sa lunga: la morte si porta via tutto e basta. Non si impara niente, di certo non dalla propria ma nemmeno da quella degli altri, a parte alzare il tiro della propria vanità. I tre vegliardi di casa in questi primi mesi dell’anno si sono ammalati gravemente e ci hanno obbligato a diventare spettatori passivi, e dolenti, del loro affaticarsi, del loro cercare aria senza mai trovarla davvero. Ora sono qui, sotto queste manciate di terra, spenti. Il vento ha iniziato a picchiare forte da sud-ovest, i boschi sulla collina ondeggiano, i rami e i tronchi non fanno che sbattere gli uni addosso agli altri.

.

Queste e altre meditazioni sono raccolte nel silvario Sutra degli alberi (Piano B), ora nelle librerie!

.

.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: